lunedì 15 luglio 2019

Il gene dei centenari che protegge i vasi sanguigni (proteina BPIFB)

Fonte (Repubblica Salute)

Qual'è il segreto dei centenari?
Una parte degli studi volti a comprendere perché alcune persone riescano a vivere più di altre, tagliando il traguardo del secolo, si concentra sui geni.
O meglio sulle varianti geniche: forme di uno, o più geni, che possano essere associate alla longevità.
La speranza è di comprendere quali sono i meccanismi biologici alla base e magari di replicarli così da migliorare salute e sopravvivenza della popolazione in generale.
Un traguardo ambizioso, fatto di tanti piccoli passi. Oggi a compierne uno in questa direzione è il lavoro presentato sulle pagine dell'European Health Journal, in cui un team di ricercatori italiani mostra come una variante genica associata alla longevità possa migliorare la salute vascolare nei topi.
Potenzialmente, raccontano gli scienziati, la proteina prodotta da questo gene potrebbe migliorare la salute cardiovascolare umana. Ma andiamo con ordine.

La variante genica in questione si chiama LAV (“longevity associated variant”) e contiene le istruzioni per la produzione della proteina BPIFB4. Questa particolare versione del gene sembra trovarsi più frequentemente nelle persone che vivono a lungo, e oggi un team di ricercatori dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli, dell’I.R.C.C.S. MultiMedica di Sesto San Giovanni e dell’Università degli Studi di Salerno, ha cercati di capire se questa proteina potesse avere un effetto protettivo sulla salute cardiovascolare.
La proteina in questione infatti sembra coinvolta nel regolare la funzione endovascolare.

Gli scienziati hanno condotto una serie di esperimenti in vivo sui modelli animali e in vitro su vasi sanguigni umani.
Nei topi i ricercatori hanno adottato un approccio di terapia genica: hanno inserito all'interno delle cellule degli animali – suscettibili all'aterosclerosi e quindi a complicazioni cardiovascolari, sia per genetica che per alimentazione ricca di grassi – la variante LAV BPIFB4. “Abbiamo osservato un miglioramento della funzionalità dell’endotelio (la superficie interna dei vasi sanguigni), una riduzione di placche aterosclerotiche nelle arterie e una diminuzione dello stato infiammatorio”, ha spiegato Annibale Puca dell''Università di Salerno e dell’I.R.C.C.S. MultiMedica, primo autore della ricerca.

In vitro gli scienziati hanno somministrato la proteina codificata dalla variante genica a vasi sanguigni ottenuti da pazienti con aterosclerosi, osservando effetti simili, come il ripristino della funzione endoteliale, il rilascio di fattori protettivi e l'inibizione di quelli con attività proinfiammatoria.
Infine i ricercatori hanno anche misurato i livelli della proteina BPIFB nel plasma di alcuni pazienti, notando che più alti erano, minore era il rischio cardiovascolare.

Gli scienziati hanno identificato anche i meccanismi molecolari coinvolti nell'azione protettiva della variante genica, e sperano che quanto scoperto possa in futuro portare allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche per migliorare la salute vascolare.
A prescindere dalla genetica, ma modulando i meccanismi molecolari coinvolti. “Dal momento che il principale fattore di rischio per le malattie cardiovascolari è il progressivo invecchiamento della popolazione – scrivono gli autori – svelare i segreti di un invecchiamento in salute potrebbe essere l'unica strada per limitare l'impatto delle patologie cardiovascolari”.
In altre parole, continuano gli esperti, la strada è quella di trasferire il potenziale del dna dei centenari nella prevenzione della salute cardiovascolare.

lunedì 4 marzo 2019

Si nasconde nel fagiolo l'arma efficace contro l'andropausa

Fonte: La Repubblica (articolo originale)

Forse un giorno tutti lo conosceremo come il "fagiolo magico".
Per ora è stata depositata la richiesta di brevetto di un nuovo principio nutraceutico dopo che uno studio durato otto anni ha dato ottimi risultati.
Il nuovo prodotto naturale è basato su un estratto di fagiolo capace di curare i sintomi dell'andropausa, compresi la ridotta produzione di testosterone, l'osteoporosi e la sindrome metabolica.
La scoperta del fagiolo "magico" che combatte l'andropausa arriva dal gruppo di ricerca dell'Università di Padova coordinato dall'andrologo Carlo Foresta e da Luca De Toni.
Un risultato promettente, dunque,  presentato durante il convegno di Medicina della Riproduzione di scena in questi giorni ad Abano Terme.

La ricerca
I ricercatori padovani hanno dimostrato che l'osteocalcina, proteina prodotta dall'osso, o più precisamente dalle cellule precursori di quelle osee (osteoblasti), ha una influenza positiva su molte strutture dell'organismo.
Hanno inoltre isolato la piccola porzione della proteina che interagisce e attiva i meccanismi recettoriali.
A questo punto gli studiosi hanno cercato in natura qualcosa di simile e l'hanno trovato in un particolare estratto di fagiolo, che adesso è secretato da un brevetto depositato a livello internazionale, sul quale sta lavorando una casa farmaceutica.

"Gli autori della ricerca sono sicuri che questa sostanza nutraceutica sia un possibile supporto della sintomatologia associata all'andropausa", ha spiegato Foresta.
"Ricordiamo che nell'uomo dopo i quarant'anni si assiste a una lenta caduta dei livelli di testosterone che può associarsi a un quadro clinico caratterizzato da osteoporosi, obesità, sindrome metabolica, disfunzioni erettili e altre alterazioni della sessualità, oltre alla riduzione della massa muscolare", conclude l'esperto.
E in molti adesso attendono il fagiolo "magico" per contrastare l'età che avanza, ma questo richiederà ancora un po' di tempo per poter essere commercializzato.

martedì 1 gennaio 2019

Padova, intervento record. Asportato tumore dal cuore senza aprire il torace

Fonte: La Repubblica (articolo originale)

Intervento eccezionale di chirurgia oncologica a Padova, dove una task force di specialisti - cardiochirurghi, urologi, chirurghi epatobiliari - ha rimosso un tumore renale, esteso al cuore, senza aprire il torace. Il tutto grazie a una nuova tecnica, usata - informa l'Azienda ospedaliera della città veneta - per la prima volta al mondo, che ha consentito di aspirare la parte cancerosa.

L'operazione, realizzata da 28 professionisti susseguitisi in sala operatoria, aveva come paziente un 77enne le cui condizioni non consentivano l'operazione tradizionale, più invasiva. L'intervento "è stato portato a termine 'aspirando' la massa senza aprire il torace con una nuova tecnica. E' la prima volta al mondo e ora il paziente è in recupero e tornerà presto alla sua vita normale". Lo comunica in una nota l'Azienda ospedaliera di Padova. "Questo tipo di intervento - proseguono i medici - viene normalmente eseguito con l'asportazione del rene coinvolto dal tumore attraverso l'apertura dell'addome e la rimozione del trombo/tumore dal cuore attraverso l'apertura del torace e del cuore con l'ausilio del bypass cardiopolmonare totale in collaborazione tra urologi e cardiochirurghi".

"Nel caso specifico, per la presenza delle numerose patologie ed in particolare per il pregresso intervento con i bypass localizzati nei siti chirurgici strettamente connessi alla riapertura, l'approccio tradizionale era proibitivo", ricordano gli specialisti. Così, coordinati e diretti dal professor Gino Gerosa, direttore della Cardiochirurgia, i chirurghi hanno studiato a tavolino il caso clinico.

"La storia di questo paziente ha imposto di cercare una soluzione alternativa all'intervento classico, e così è stata messa in piedi la task force di cardiochirurghi, urologi e chirurghi epatobiliari, coadiuvati da cardioanestesisti e personale sanitario per realizzare il delicato intervento, mai effettuato prima - sottolineano gli esperti - E' stato optato per l'approccio innovativo microinvasivo con sistema AngioVAC e entrando nel vivo dell'intervento i professionisti si sono susseguiti per specialità, alternandosi al tavolo operatorio come in una staffetta".

"Il nuovo approccio con l'inserimento, senza incisioni chirurgiche, della cannula di aspirazione a livello di una vena del collo collegata ad una pompa centrifuga e ad un filtro ha permesso come un'aspirapolvere l'aspirazione ad alto flusso del tumore - ricordano i medici - Il sangue aspirato dall'interno del cuore durante l'intervento chirurgico è stato filtrato e re-immesso nel circolo arterioso attraverso un'altra cannula posta all'altezza dell'arteria femorale.Per la prima volta al mondo, la particolare configurazione artero-venosa del sistema AngioVAC in modalità Ecmo non solo ha permesso l'aspirazione della massa dal cuore ma ha garantito la stabilizzazione del paziente durante tutte le fasi dell'intervento chirurgico"

Ma quali sono le prospettive future di questo innovativo approccio? "Il nuovo approccio chirurgico microinvasivo permette l'asportazione di masse intracardiache da tumori renali senza aprire il torace, a cuore battente, senza l'ausilio della circolazione extra corporea con una sola incisione a livello dell'inguine - rispondono gli specialisti - L'innovativa configurazione artero-venosa in modalità Ecmo consente l'aspirazione della massa intracardiaca e la stabilizzazione del paziente durante tutte le fasi dell'intervento".

"Interventi di questa complessità, possono essere realizzati in centri altamente specializzati grazie al supporto di tecnologie all'avanguardia e di personale altamente professionale, duttile ad esperienze multidisciplinari", concludono gli esperti.

L'intervento è stato salutato dal presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, come un episodio che "chiude nel migliore dei modi un anno di successi della sanità veneta e costituisce un viatico di progresso scientifico, non solo per il 2019, ma anche per gli anni a venire".

giovedì 23 agosto 2018

Alimenti e infiammazione: i cibi che contribuiscono a creare uno stato di alterazione causa di molte malattie?

L’indice infiammatorio degli alimenti è un concetto poco conosciuto dalla maggior parte dei consumatori, anche se trova uno spazio rilevante nell’ambito medico nutrizinale.
Il blogger Günther Karl Fuchs autore di Papille Vagabonde in questo articolo spiega qual'è la relazione tra il cibo ingerito e lo stato di infiammazione che si può  generare nell’organismo.

Che cos’è l’indice di infiammazione degli alimenti? E a chi serve?
Attualmente è un indice utilizzato più negli studi medico-scientifici che nella quotidianità.
L’infiammazione è associata a una serie di condizioni di salute croniche, come il cancro e le malattie cardiovascolari, quindi ridurla può aiutare a prevenire o, in certi casi, trattare queste patologie.
Diversi studi indicano che l’alimentazione può contribuire a modulare l’infiammazione.
La ricerca negli ultimi anni ha dimostrato che ci sono alimenti in grado di stimolare uno stato infiammatorio, e altri che possono contribuire a ridurlo.

L’infiammazione è una risposta difensiva dell’organismo ad attacchi esterni, una normale reazione del  sistema immunitario.
Il problema sorge quando la situazione dura a lungo e si cronicizza nel tempo.
Quando accade si parla di infiammazione cronica sistemica di basso grado (chronic low-grade inflamation), una condizione che può stimolare l’invecchiamento cellulare e favorire, secondo i ricercatori, lo sviluppo di patologie degenerative come le malattie cardiovascolari, l’artrite reumatoide, il diabete e l’Alzheimer.
Per questa ragione i nutrizionisti invitano a seguire un’alimentazione ricca di cibi antinfiammatori e con meno cibi pro-infiammatori.

L’indice si calcola in base all’impatto della proteina C reattiva, una proteina misurabile nel sangue prodotta dal fegato, che funge da marker biologico stabile per la rilevazione dell’infiammazione in una fase precoce.
Non è la prima volta che si sente parlare della proteina C reattiva (PCR), in quanto si tratta di un esame del sangue che può essere prescritto quando c’è il sospetto di un infezione batterica, una meningite, cancro, ma anche una malattia infiammatoria intestinale, autoimmune, l’artrite reumatoide, un’artrite cronica o il morbo di Chron.

Una volta valutata la reazione dell’alimento alla proteina C reattiva, i cibi vengono suddivisi in 3 categorie: pro-infiammatori, antinfiammatori o neutri.
Non è escluso che in futuro questa classificazione possa  diventare un indice più noto al pubblico, in virtù dell’eccessivo aumento delle patologie legate all’infiammazione.

Gli alimenti pro-infiammatori sono quelli che per le loro caratteristiche hanno la possibilità di peggiorare lo stato d’infiammazione.
In genere si tratta di alimenti industriali molto elaborati che contengono tra gli ingredienti oltre a grassi saturi e colesterolo, anche additivi, coloranti, dolcificanti ed esaltatori di sapidità:

    Dolci e merendine industriali
    Dadi da brodo
    Zuppe pronte
    Sughi pronti
    Carni elaborate
    Salumi (per il contenuto di grassi saturi e colesterolo)
    Würstel
    Filetti di pollo e pesce impanati
    Alcol
    Patate e chips*

Gli alimenti che riducono lo stato infiammatorio, in genere sono quelli con molte fibre e alcuni micronutrienti contenuti in frutta e verdura. Nell’elenco troviamo:

    Cereali in particolare quelli integrali, oltre al grano il riso, avena, orzo, farro, segale, grano saraceno, miglio.
    Olio extravergine d’oliva (per il contenuto di grassi monoinsaturi, vitamina E e polifenoli)
    Cipolle
    Mele
    Semi di lino e di zucca
    Mandorle e noci
    Frutti di bosco
    Curcuma e zenzero
    Ananas

All’interno di un’alimentazione equilibrata può essere utile prediligere alimenti antinfiammatori, con un indice d’infiammazione basso, in particolare per le persone a cui sono state già diagnosticate o quando c’è il rischio di sviluppare patologie autoimmuni, malattie cardiovascolari e malattie degenerative.

Sebbene l’indice infiammatorio degli alimenti possa rappresentare per molti una novità, la teoria non aggiunge nulla alle conoscenze già note.
L’invito è sempre quello di consumare più cereali, meglio se integrali, prediligere l’olio d’oliva extravergine, mangiare cinque porzioni di frutta e verdura fresca al giorno, l’utilità del consumo, anche se moderato, di frutta secca (mandorle, noci) e la limitazione di tutti gli alimenti industriali elaborati ricchi di sale, grassi saturi, zucchero, additivi ed esaltatori di sapidità.

(*) Nota:

Ha destato molta perplessità l’inserimento da parte dei ricercatori  nella lista degli alimenti infiammatori delle patate, che va ricordato però hanno un alto indice glicemico (come zucchero e farina 00).
È nota la relazione tra un alimentazione ad alto indice glicemico e alto indice infiammatorio, anche se l’indice glicemico delle patate varia per esempio in quelle al forno da 56 a 111, se bollite da 56 a 101.

È necessario tenere presente che le patate richiamano anche una certa quantità di grassi come condimento nella cucina tradizionale e anche frequenza di consumo e quantità.
I ricercatori non invitano a eliminare, ma a ridurre il consumo.
Non bisogna concentrarsi su un alimento specifico ma sull’alimentazione in generale, che oggi è particolarmente ricca di alimenti già pronti. Ridurre anche solo in parte quelli sarebbe un ottimo traguardo, al di là della patata.

sabato 7 aprile 2018

L’overdose di cibo “supergrasso” trasforma i globuli rossi



Fonte: La Repubblica (articolo originale)

Avete presente un globulo rosso, la cellula dal sangue che grazie all’emoglobina contenuta trasporta l’ossigeno a tutto l’organismo?
Nel corpo umano ce ne sono miliardi di miliardi e, tra le loro funzioni, c’è anche la regolazione della disponibilità di ossido nitrico che aiuta le arterie a mantenersi elastiche e quindi a dilatarsi in caso di bisogno.
Ma quanta differenza esiste tra un globulo rosso di una stessa persona prima e dopo un pasto ricchissimo in grassi.
Basta un solo appuntamento con questo tipo di cibo per rendere queste cellule più piccole e modificarne la forma.
Infatti, un carico in acuto di cibo grasso creerebbe veri e propri “spuntoni” sulla superficie dei globuli rossi, capaci non solo di modificarne la forma ma anche di “alterare” la loro funzione.

Tutte queste trasformazioni negative, presumibilmente temporanee, si osservano dopo una sola overdose di grassi alimentari.
A dimostrarlo è una ricerca apparsa su Laboratory Investigation e condotta dagli scienziati del Medical College della Georgia, di Augusta.
Lo studio, coordinato da Tyler W. Benson, è estremamente semplice.
Sono stati presi in esame dieci uomini che facevano regolare attività fisica e che avevano valori di colesterolo e trigliceridi del sangue perfettamente nella norma.
Poi sono stati fatti due gruppi da cinque.
Nel primo, i volontari hanno assunto una sorta di “beverone” ad altissimo contenuto in grassi, con un calcolo delle calorie proporzionato al fisico del soggetto, una sorta di pasto “iperlipidico” spinto.
Nel secondo invece, pur se con lo stesso quantitativo calorico, l’apporto nutrizionale in lipidi era estremamente ridotto e compensato da carboidrati e proteine.
Dopo quattro ore dal pasto sono stati fatti gli esami del sangue, gli scienziati si sono concentrati in particolare sulle caratteristiche dei globuli rossi e sono apparse le sorprese sotto forma di una riduzione della dimensione e un cambio della loro forma.
Sono comparsi infatti dei globuli rossi caratterizzati da un bordo “frastagliato”, presumibilmente meno capaci di viaggiare nei vasi sanguinei più piccoli, dove queste cellule consegnano normalmente il loro carico di ossigeno.

Inoltre, è bastata un’unica overdose alimentare di lipidi per notare un altro fenomeno potenzialmente negativo per il cuore: l’eccesso concentrato di grasso alimentare ha indotto un aumento della mieloperossidasi, enzima che già in passato ha dimostrato di influenzare l’elasticità delle arterie e l’ossidazione del colesterolo HDL, a tutto vantaggio di quello “cattivo” o LDL.

«Questo studio è interessante - segnala Pablo Werba, responsabile dell’Unità Prevenzione Aterosclerosi del Centro Cardiologico Monzino, IRCCS di Milano - perché scopre possibili meccanismi alla base dell’insorgenza “inaspettata” di problemi coronarici, come l’angina o l’infarto del miocardio, dopo un’abbuffata di cibo grasso.
Le evidenze emerse ci suggeriscono di considerare anche questo eccesso insieme agli altri comportamenti più noti che possono scatenare eventi cardiaci, come gli episodi di ira o gli sforzi fisici esagerati e inconsueti».

Insomma: l’eccesso di grasso alimentare può risultare davvero uno stress per il sangue e per il cuore. Quindi, meglio evitare overdose di cibo ipergrasso.

domenica 5 novembre 2017

Mai esagerare con lo sport, più di 7 ore e mezza di allenamento a settimana fanno male

Fonte: Articolo La Repubblica Salute
Il troppo stroppia, forse anche nello sport: gli uomini che praticano attività fisica per più di 7 ore e mezza a settimana presentano un rischio aumentato dell'86% di depositi di calcio alle arterie coronarie.
E queste placche, in base a recenti evidenze, sembrano essere associate a eventi cardiovascolari anche fatali, come infarto e ictus.
A dimostrare l'associazione fra sport eccessivo e calcificazioni alle coronarie è uno studio Usa, chiamato Cardia (Coronary Artery Risk Development in Young Adult Study), condotto su migliaia di persone, che ha analizzato su un periodo di oltre 25 anni gli effetti a lungo termine di un esercizio sportivo molto frequente.
Il rischio emerso dall'indagine – che per ora rimane una semplice associazione statistica e non dimostra un rapporto di causa-effetto fra troppo sport e placche di calcio nelle arterie – riguarda principalmente gli individui di sesso maschile e di etnia bianca.
Tutti i dettagli della ricerca sono pubblicati su Mayo Clinic Proceedings (vedi sotto).

La calcificazione delle arterie consiste in depositi di calcio sulle arterie coronarie che, insieme alle note placche aterosclerotiche (composte da varie sostanze fra cui il famoso colesterolo), sembrano aumentare il rischio di infarto e altri eventi cardiovascolari.
Tuttavia il legame fra calcificazioni coronariche e rischio di infarto è ancora oggetto di studio da parte della comunità scientifica.
E lo studio Cardia nasce anche dall'esigenza di comprendere meglio questo legame, come ha spiegato Stefano Bianchi, cardiologo al Fatebenefratelli San Giovanni Calibita, Isola Tiberina di Roma.
“Questa ampia ricerca – ha sottolineato l'esperto – è nata per valutare se e in che modo la genetica e lo stile di vita, dalla dieta all'attività fisica, abbiano un'influenza sull'evoluzione della malattia coronarica e sul rischio di infarto”.

Per svolgere l'indagine gli autori hanno selezionato un campione di quasi 3.200 persone che, all'inizio dello studio, nel 1985,avevano un'età compresa fra i 18 e i 30 anni, mentre alla fine , nel 2011, erano fra i 43 e i 55 anni.
Il team di scienziati ha assegnato i partecipanti a diverse categorie in base all'attività fisica svolta, che è stata costantemente valutata durante intervalli di tempo regolari.
Le categorie comprendevano un gruppo di soggetti meno attivi, che avevano svolto meno di 150 minuti di esercizio a settimana; poi vi era un campione di persone che aveva svolto attività mediamente per 150 minuti a settimana, attenendosi dunque alle raccomandazioni delle linee guida internazionali; ed infine i più attivi, che si muovevano per più di 450 minuti a settimana – circa 7 ore e mezza –, superando di più di tre volte la quantità di esercizio raccomandata dagli esperti.

L'intensità dell'attività fisica presa in considerazione variava da un livello moderato, come una camminata o il giardinaggio, fino ad un grado intenso, come la corsa o il nuoto.
La quantità di attività fisica veniva poi messa in relazione con la malattia coronarica e il rischio di infarto.
“Questi due elementi – ha spiegato Bianchi – sono stati espressi attraverso il numero e la gravità delle placche di arteriosclerosi.
Queste placche sono state visionate dagli autori dello studio mediante una Tac coronarica”.

A sorpresa per gli autori dello studio, che non si aspettavano questo risultato, chi aveva svolto un'elevata attività fisica, superando le 7 ore e mezza a settimana, presentava, a distanza di 25 anni, una maggiore incidenza di calcificazioni alle coronarie intorno ai 50 anni.
Mentre i partecipanti del gruppo meno attivo, che avevano praticato meno di 150 minuti di esercizi a settimana, sono risultati anche meno a rischio di queste calcificazioni alle coronarie.
Nel caso di un'elevata attività sportiva, superiore alle 7 ore e mezza a settimana, il rischio di placche di calcio alle coronarie aumentava dell'86% nelle persone di sesso maschile e etnia bianca, mentre cresceva meno, cioè del 27%, se si considerano tutte le categorie di persone (entrambi i sessi e tutte le etnie).

“Questa sotto-analisi – ha illustrato Bianchi – all'interno del vasto studio Cardia, pubblicata da Mayo Clinic, sembrerebbe mostrare che l’eccessiva attività fisica, tre volte superiore a quella consigliata dalle linee guida internazionali, possa essere controproducente per la salute delle coronarie”.
Le ragioni di questo dato sono ancora da approfondire e pongono interessanti quesiti, dato che ad esempio gli uomini caucasici sembrano essere più a rischio. Ma c'è anche un'altra faccia della medaglia: un'elevata attività fisica potrebbe anche fungere da elemento protettivo contro la rottura delle placche aterosclerotiche, dunque contro gli attacchi di cuore. Un elemento ancora tutto da valutare, che apre il dibattito su importanti aspetti della salute cardiovascolare.

Quella di oggi, inoltre, non è la prima ricerca sul tema delle calcificazioni coronariche, che già in base a ricerche precedenti sembrano


Link

Articolo originale (Inglese)

sabato 22 luglio 2017

Over 70, un cocktail di proteine per 'ringiovanire' i muscoli

Tratto da Repubblica Ricerca (link articolo originale)

IL DECLINO nella massa e funzione dei muscoli che avviene normalmente con l’età non è un destino obbligato: lo si può contrastare, anche passati i settant’anni, con risultati discreti (almeno nel breve/medio periodo) con gli integratori di proteine, perfino se non si fa esercizio fisico.
A suggerirlo è uno studio del Metabolism Research Group della McMaster University di Hamilton (Canada) pubblicato su Plos One.

LO STUDIO
I ricercatori hanno studiato gli effetti su gruppo di 49 uomini, età media 73 anni, di un cocktail di diversi integratori: proteine del siero del latte, creatina, vitamina D, calcio e omega 3.
Sono stati formati due gruppi. Per sei settimane, durante le quali nessun soggetto ha svolto particolare attività fisica, i soggetti del primo gruppo hanno bevuto due volte al giorno il cocktail proteinico, gli altri un placebo.
Allo scadere del periodo, i membri del primo gruppo avevano in media acquisito 700 grammi di massa magra.
«E’ la prima volta che un supplemento proteico multi-ingrediente viene trovato in grado di aumentare la massa muscolare magra negli anziani anche in assenza di esercizio fisico» spiega Gianni Parise, ricercatore alla McMaster University di Hamilton (Canada).
Difficile isolare il singolo supplemento più efficace: «Abbiamo voluto studiare l’effetto di un cocktail di sostanze perché ogni supplemento agisce per vie biochimiche diverse – ad esempio le proteine del siero del latte stimolano i processi cellulari che sviluppano i muscoli, invece la creatina ha effetto aumentando la ritenzione d’acqua e gonfiando le cellule - e non tutti rispondono allo stesso modo agli stessi stimoli: combinare più supplementi ci è parso il modo per massimizzare gli effetti».

La seconda fase dell’esperimento ha sottoposto entrambi i gruppi a un regime di esercizi di resistenza fisica (due volte alla settimana) e allenamento a intervalli ad alta intensità (una vota alla settimana).
Il primo gruppo ha continuato per tutto il tempo ad assumere il cocktail di integratori.
Il risultato questa volta non ha visto un aumento di massa muscolare nel primo gruppo, ma un incremento nella forza fisica. «Forse i nostri strumenti non sono sufficientemente precisi per individuare piccoli aumenti muscolari, mentre è più facile misurare l’aumento di forza» spiega Gianni Parise.
«Comunque è del tutto prevedibile che l’aumento di massa muscolare ottenuto nelle prime 6 settimane, seguito da attività fisica, si traduca in un aumento della forza».

GLI INGREDIENTI
Possono esserci delle controindicazioni per l’assunzione di integratori a una certa età?
Le proteine del siero del latte, così come gli altri ingredienti del cocktail che abbiamo somministrato, sono innocue.
Tranne che per una minoranza di individui, che con l’età possono sviluppare un’intolleranza: ad esempio chi soffre di gotta può avere problemi con una quantità di proteine che si somma a quella della dieta quotidiana» risponde Parise.
La nuova ricerca può dare indicazioni utili per chi è in età avanzata e non può seguire un programma strutturato di allenamento: «Ad esempio persone che hanno subito un intervento che limita le possibilità di movimento» osserva Parise.
«E’ importante tuttavia specificare che i supplementi di proteine non possono e non devono essere considerati un sostituto per l’attività fisica».