martedì 30 dicembre 2014

Con un prelievo di sangue si prevederà il rischio di infarto


Con un prelievo di sangue si potrà un giorno predire con largo anticipo se un individuo rischia di andare incontro ad un infarto in futuro.
In una ricerca pubblicata sulla rivista Plos Genetics è stato infatti scoperto un composto (una molecola di grasso chiamata monogliceride) presente nel plasma di individui destinati ad ammalarsi della cosiddetta patologia delle arterie coronarie, ovvero i vasi sanguigni che circondano il cuore e che gli portano l’ossigeno.
La malattia delle coronarie è direttamente collegata al rischio individuale di infarto perché se uno di questi vasi si rompe, collassa o viene ostruito dalla rottura di una placca di arteriosclerosi il risultato è l’infarto del miocardio, che altro non è che il «soffocamento» di quella porzione di cuore non più normalmente irrorata dal vaso.

Lo studio su 3600 individui

Il lavoro - da ritenersi ampiamente attendibile in quanto è stato condotto su varie popolazioni di persone arrivando sempre allo stesso risultato - è stato condotto dalla università di Uppsala in Svezia, l’istituto Karolinska di Stoccolma e la Colorado State University.
Diretti da Erik Ingelsson, gli esperti hanno esaminato campioni di sangue raccolti da oltre 3600 individui il cui stato di salute è stato poi monitorato e tenuto sotto osservazione per i 10 anni successivi.
Il sangue di ciascuno è stato passato al setaccio con modernissime e sofisticate tecniche di medicina molecolare ed è stata catalogata una lunga lista di molecole (metaboliti) in esso presenti.

Le tre molecole

Gli esperti hanno identificato in tre gruppi di popolazioni due molecole di grasso che riducono il rischio di sviluppare malattia delle arterie coronariche (lisofosfatidilcolina e sfingomielina).
Poi hanno isolato una terza molecola, un monogliceride (a sua volta un grasso), associata, al contrario, a un maggior rischio di malattia coronariche favorenti l’infarto.
Lo stesso risultato è stato ottenuto su diversi campioni di popolazione, a dimostrazione che si tratta di un risultato solido.

Il futuro

I metaboliti grassi isolati nel sangue potrebbero in futuro rivelarsi utili per stimare il rischio individuale di malattia cardiovascolare con un semplice prelievo di plasma.
Attualmente sono altresì in corso esperimenti su animali per verificare se esista un vero e proprio ruolo causale da parte di questi metaboliti nello sviluppo della malattia cardiovascolare e quindi nel rischio di infarto.
Se confermati, questi risultati potrebbero condurre anche allo sviluppo di nuovi bersagli terapeutici anti-infarto.

sabato 6 dicembre 2014

Medicina manuale


Articolo tratto dal sito Medicinamanuale.net

IL PERIODO ANTICO

Tracce della pratica manipolativa della colonna vertebrale, intesa come pratica terapeutica, si trovano nei documenti delle scuole mediche, sia occidentali che orientali.

Già in alcuni testi di medicina cinese, come ad esempio il Manuale del Kong – Fu, scritto intorno al 2000 a. C., sono riportate manovre che avevano lo scopo di trattare alcune patologie del rachide.

Tra gli scritti di Ippocrate se ne trova uno specifico sulle articolazioni (‘Periarthron’), in cui viene descritto un trattamento della “Cuvatura del rachide determinata da cause esterne”, che prevedeva l’applicazione di pressioni eseguite con il palmo della mano da parte del medico, sulle curvature del rachide.

Galeno nel II secolo d. C., nel ‘De locis affectis’, riferisce di avere curato e guarito Pausania con l’applicazione di medicamenti sul rachide cervicale, affetto da un disturbo della sensibilità che interessava le dita di una mano; l’autore spiegava che l’affezione era secondaria ad una lesione di una radice nervosa proveniente dal midollo spinale, e consigliava di effettuare l’esame della cute e dei muscoli in questi casi.

Sempre in epoca romana la pratica del massaggio, delle mobilizzazioni articolari e dell’esercizio fisico trovava largo impiego (spesso nelle terme!), sia per il mantenimento della forma fisica, sia per la preparazione degli atleti che per vero e proprio scopo terapeutico: questi trattamenti venivano eseguiti esperti, quali gli ‘alipti’, che erano veri e propri preparatori di atleti, e dai ‘pediotribi’, che seguivano gli atleti affetti da traumatismi.

Con il Medioevo e fino al Rinascimento, la medicina si allontana dalle pratiche terapeutiche eseguite direttamente sul corpo: così, come la chirurgia diventa pratica dei ‘cerusici’, nascono figure ‘popolari’ che si occupano del trattamento delle patologie ortopediche, quali i ‘bonesetters’ (‘aggiustaossa’) in Inghilterra, i ‘rebouteux’ (‘conciaossa’) in Francia, gli ‘algebristas’ (‘raddrizza ossa’) in Spagna.

Queste pratiche terapeutiche si pongono ai margini della medicina ufficiale, tanto da essere considerate medicina empirica o ‘pratica’, anche se non è da escludere che la loro applicazione veniva fatta anche dai medici: l’interesse di quest’ultimi per la capacità di alleviare il dolore dei pazienti della medicina ‘pratica’, può spiegare l’atteggiamento favorevole dei medici nei confronti di discipline quali l’osteopatia e la chiropratica , fin dalla loro nascita.

L'OSTEOPATIA

Con l'osteopatia nasce il primo e vero proprio metodo terapeutico che utilizza la manipolazione vertebrale; il suo fondatore è un medico di Kirksville (USA), Andrew Taylor Still (1830-1917) che inventa e sperimenta un gran numero di tecniche manipolative della colonna vertebrale.
Attorno al 1874 Still si convince che la medicina del suo tempo non è in grado di dare delle risposte alla maggior parte delle malattie e che la malattia insorge quando le varie parti del corpo non sono in ordine; in particolare, individua nella “lesione osteopatica” della colonna vertebrale la causa della perdita delle difese o di immunità naturali da parte di organi che vengono così attaccati dalla malattia.

La diagnosi consiste nella ricerca della “lesione osteopatica”, che può essere ‘primaria’ o ‘secondaria’: nel primo caso deriva dalla articolazione, nel secondo l’origine può essere riflessa viscerale, termica o ‘morale’; la “lesione osteopatoca” viene ricercata a mezzo di una fine palpazione, con la quale si trova la anormale posizione della vertebra nello spazio e la perdita della sua normale mobilità.

Il trattamento consiste in manovre sui tessuti molli, mobilizzazioni e manipolazioni vertebrali.

Viene così elaborata una dottrina medico-filosofica  che viene denominata osteopatia, e, a partire dal 1892, vengono fondate diverse Scuole Mediche in cui, oltre ad insegnare la medicina tradizionale, veniva insegnata l’osteopatia; ma solamente nel 1897 il titolo di "Doctor of Osteopathic” (D.O.) viene ufficialmente riconosciuto.

Da allora l’osteopatia si è scontrata con la medicina ufficiale, fino a ritagliarsi un proprio settore, anche grazie a momenti favorevoli, il primo dei quali nei primi anni quaranta, quando il Presidente statunitense F. D. Roosevelt, acconsentì che gli osteopati avessero gli stessi doveri e diritti dei medici.

Successivamente, nel 1962, in California venne decisa la fusione degli ordini dei medici e degli osteopati: ciò permise che il titolo di "Doctor of Osteopathic” (D.O.) poteva essere parificato a quello di Medical Doctor (M.D.), con la possibilità di esercitare qualunque branca della Medicina, purchè consentito da parte dello Stato Federale.

Anche la formazione universitaria delle figure di medico e osteopata è simile in durata e materie insegnate, anche se l’osteopata approfondisce gli aspetti specifici della disciplina rispetto a quelli delle medicina ufficiale.

Questo avvicinamento alla medicina ufficiale ha inevitabilmente compromesso l’applicazione dei principi di Still: lo dimostra il fatto che oltre due terzi di diplomati D.O. opera come medico generico nei piccoli centri degli Stati Uniti e che molti D.O. prescrivono farmaci e utilizzano poco le tecniche osteopatiche tradizionali, mentre solo un terzo segue una specializzazione in medicina vertebrale.

In Italia non è riconosciuto legalmente il titolo di D.O. statunitense: quest’ultimo non va poi confuso con quello di D.O. (Diplomato in Osteopatia) rilasciato in corsi privati attivati in Canada, Inghilterra, Sud America e ora anche in Italia, che preparano operatori che non hanno al lato pratico specifiche competenze diagnostiche e terapeutiche, in quanto questo diploma non ha allo stato attuale valore giuridico.


LA CHIROPRATICA

Nella storia delle manipolazioni vertebrali, occorre menzionare anche la Chiropratica, disciplina che nasce sempre negli USA  attorno al 1894 ad opera  di Daniel David Palmer, che non era un medico, ma un commerciante di Davenport che per un certo periodo si era interessato di magnetismo come metodo di cura.

Palmer pensava che le malattie non esistessero, ma che gli organo funzionassero male secondariamente al fatto che non arrivava loro correttamente l’impulso nervoso, a causa di un “blocco” creato da una “sublussazione vertebrale”: il rimedio era quello di riaggiustare la vertebra sublussata, mediante manovre “dirette” sulle vertebre.

Nel 1896 Palmer fondò una scuola a Davenport, conosciuta oggi come Palmer College of Chiropratic.

Le ipotesi di Palmer si sono da subito scontrate sia con la medicina ufficiale che con l’osteopatia per l’infondatezza scientifica e si è diffusa grazie anche a forme di pubblicità ridondanti: solo grazie ad una lunga battaglia legale, nel 1973 il Congresso degli Stati Uniti ha accettato la chiropratica come professione sanitaria.

Negli USA la formazione avviene in scuole, circa 15, anche se non tutte riconosciute; il chiropratico può operare solo con trattamenti manuali o naturali e dietro indicazione medica.

La disciplina riscontra successo di pubblico anche in Europa, dove viene vissuta dal pubblico (e anche da medici non bene edotti nella materia), come una dottrina d’avanguardia: anche nel caso della chiropratica sono nati in Europa e in Italia dei corsi privati di formazione, che però rilasciano attestati non legalmente riconosciuti.


LO SVILUPPO DELLA MEDICINA MANUALE IN EUROPA

La medicina tradizionale si è interessata in ritardo delle pratiche manipolative usate a scopo terapeutico, e solo negli anni venti queste metodiche vengono introdotte in Europa: i primi ad utilizzarle furono dei chirurghi ortopedici inglesi (‘manipulative surgeons’), che le applicarono in casi di rigidità articolare ed in anestesia generale; alcune di queste metodiche vengono tutt’oggi applicate nelle grosse articolazioni in campo ortopedico (‘sblocco in narcosi’).

In Francia, intorno al 1913, Moutin pubblicò la prima opera in lingua sull’osteopatia; ma fu grazie a Robert Lavezzari che la disciplina fu introdotta con successo in ambiente medico intorno agli anni venti. Egli fondò la prima scuola francese di manipolazioni osteoarticolari, che, con il tempo, ha avuto un seguito molto limitato.

In Inghilterra, intorno agli anni trenta, per merito di James B. Mennel, docente di Medicina Fisica a Londra, le manipolazioni furono introdotte nella pratica terapeutica ospedaliera: l’aspetto innovativo del suo operato è che, pur riprendendo l’esame del paziente e le tecniche dalla osteopatia, ne limita le indicazioni a patologie ortopediche; il limite della sua proposta è nel non definire delle indicazioni precise caso per caso, con l’effetto di applicare manovre fisse e ripetitive.

Il successore di Mennel, J. Ciriax, ha proposto proprie teorie sull’origine dei disturbi vertebrali, ricercando come causa primaria delle algie vertebrali le alterazioni del disco intervertebrale; da qui veniva applicato un trattamento che, non si basandosi su img semeiologici obiettivi, risultava fisso e ripetitivo: tutti i pazienti venivano sottoposti ad una trazione vertebrale con lo scopo di risolvere la protrusione discale, eseguita da più operatori che tiravano il capo ed i piedi del paziente, prima di applicare la manipolazione, con manovre identiche in tutti i casi.

In Germania ha trovato ampio seguito la chiropratica, diffusa da un fisioterapista, Kaltenborn; tale influenza si è allargata alla Svizzera, che riconosce legalmente fin dal 1940 i chiropratici.


LA MEDICINA MANUALE DI ROBERT MAIGNE

La pratica delle manipolazioni vertebrali entra in una nuova fase per opera di Robert Maigne alla fine degli anni cinquanta: il suo merito è di avere trasformato una metodica ancora largamente empirica in una disciplina medica scientifica, basata su una rigorosa osservazione clinica e su studi anatomo patologici: nasce così la MEDICINA MANUALE.

Pur provenendo da una formazione osteopatica, riprende alcune di queste tecniche ma abbandona il concetto di lesione osteopatia; inoltre approfondisce la ricerca dei segni clinici che derivano da una sofferenza del segmento vertebrale, sia locali che a distanza, con l’intento di stabilire la presenza del Disturbo Intervertebrale Minore (D.I.M.), quale disfunzione vertebrale causale segmentaria, dolorosa, benigna, di matura meccanica e riflessa, generalmente reversibile.


In sintesi, gli aspetti peculiari di questa disciplina sono:

1) Una diagnosi precisa, mediante una semeiotica chiara e ripetibile, basata sulla ricerca del dolore evocato, e non, come nelle dottrine precedenti, su una ipotetica e mai dimostrata malposizione, sublussazione o lesione vertebrale da ricercarsi con la palpazione;

2) La ricerca con un metodo semplice ed efficace dei fenomeni metamerici di dolore riferito di origine vertebrale (Sindrome  Cellulo-Periosteo-Mialgica, S.C.P.M.);

3) La descrizione delle manovre manipolative non in ordine alla supposta lesione che dovrebbero correggere, ma su base cinesiologica obiettiva;

4) La applicazione di una regola precisa (del “NON DOLORE E DEL MOVIMENTO CONTRARIO”) nella esecuzione delle manipolazioni, sulla base dei segni derivanti dall’esame semeiotico- premanipolativo.

E’ evidente, da quanto fin qui esposto, come il trattamento manipolativo proposto da Maigne abbia evidenti finalità terapeutiche esclusive per l’apparato muscoloscheletrico in generale e per il rachide in particolare; i criteri di applicazione della disciplina, infatti, presuppongono una circostanziata osservazione clinica, una precisa ricerca anatomo-patologica, una ampia ricerca bibliografica, al fine di poter inquadrare con rigorosa scientificità i fenomeni osservati: da  questa impostazione nascono nuove interpretazioni patogenetiche in tema di dolore vertebrale e la conseguente descrizione di quadri nosologici nuovi in tema di patologia del rachide.

La novità peculiare rappresentata dalla metodica è da ricercarsi più che altro nella valutazione clinica del paziente rachialgico, in particolare nella applicazione dei criteri di semeiotica clinica che permettono di risalire con certezza alla localizzazione del dolore vertebrale.

La diagnosi clinica, in una patologia in cui le immagini radiologiche e gli esami strumentali sono spesso di scarso aiuto, in cui il disturbo sembra legato più alla funzione che alla lesione, è evidentemente di grande importanza, e sotto questo aspetto la Medicina Manuale ha dato il più importante contributo alla medicina.

Maigne definisce così la manipolazione:

“ … mobilizzazione passiva forzata che tende a portare gli elementi di una articolazione o di un insieme di articolazioni al di là del loro gioco abituale, fino al limite del gioco articolare fisiologico: è un atto medico e, più precisamente,  un gesto ortopedico molto preciso le cui coordinate devono essere determinate con un esame preliminare; è un mezzo terapeutico che si indirizza a ben definite indicazioni.” 


La Medicina Manuale rappresenta una vera e propria evoluzione della osteopatia e della chiropratica, in quanto fornisce di contenuti prettamente clinici e scientifici le pratiche manipolative, specificando le finalità terapeutiche e le indicazioni: lo sforzo di Robert Maigne è stato quello di dimostrare la scientificità della metodica, sia nella fase diagnostica, che nella pratica terapeutica, sfuggendo dall'aurea non specificamente sanitaria che spesso avvolge l'osteopatia e la chiropratica.

E' doveroso aggiungere che la Medicina Manuale è disciplina giovane, che, rispetto all'osteopatia ed alla chiropratica, risente di tutta l'evoluzione scientifica che ha pervaso la medicina negli ultimi cinqu'ant'anni; al giorno d'oggi fare affidamento a discipline che contano oltre cento anni di anzianità, costituisce un atteggiamento anacronistico: nel panorama medico attuale non esiste riscontro di pratica di discipline così 'antiche'!

PRESENTE E FUTURO DELLA MEDICINA MANUALE

Le conoscenze in neurofisiopatologia del dolore vertebrale sono ancora all’inizio: devono essere ancora studiati in maniera approfondita i meccanismi delle disfunzioni e del dolore vertebrale.

D’altro canto la diagnosi che viene eseguita con la Medicina Manuale permette di comprendere molto più di quanto la semplice visione delle immagini può dire: questa peculiarità fa si che l’approccio diagnostico secondo la Medicina Manuale di R. Maigne diventi patrimonio comune a tutti gli specialisti che si interessano di apparato muscolo-scheletrico.

Ne consegue che la terapia potrà essere differenziata: la manipolazione vertebrale dovrà essere solo una delle opzioni possibili, e se ne dovranno precisare esattamente i limitidel suo uso nell’ambito di una terapia multimodale.

Infatti, con il trascorrere del tempo ed il progredire degli studi, la Medicina Manuale di Maigne ha affiancato alle manipolazioni altre tecniche terapeutiche, cosicchè lo stesso Maigne, riprendendo la definizione di Ciriax, ha proposto la denominazione di Medicina Ortopedica.

Tra queste tecniche ricordiamo:

- Infiltrazioni articolari posteriori, nervi periferici e peridurali;
- Esercizi di rieducazione rivisti alla luce della diagnosi di
   Medicina Manuale;
- Trattamento dei Tender Points (cellulalgia, mialgia, punti
  dolorosi, trigger points, ecc.) mediante aghi e/o laser,
  ultrasuoni, mesoterapia, infiltrazioni locali;
- Massaggio connettivale riflesso, tecnica occidentale di
   riflessoterapia;
- Autotrazione vertebrale.

martedì 2 dicembre 2014

Kinesiterapia

La kinesiterapia è una terapia manipolativa usata nella riabilitazione e la rieducazione funzionale di singoli muscoli o gruppi muscolari o dell’intero organismo.

giovedì 6 novembre 2014

Stem cell transplant shows 'landmark' promise for treatment of degenerative disc disease

From ScienceDaily website (see original article)

Stem cell transplant was viable and effective in halting or reversing degenerative disc disease of the spine, a meta-analysis of animal studies showed, in a development expected to open up research in humans.
Recent developments in stem cell research have made it possible to assess its effect on intervertebral disc (IVD) height, Mayo Clinic researchers reported in a scientific poster today at the 30th Annual Meeting of the American Academy of Pain Medicine.

"This landmark study draws the conclusion in pre-clinical animal studies that stem cell therapy for disc degenerative disease might be a potentially effective treatment for the very common condition that affects people's quality of life and productivity," said the senior author, Wenchun Qu, MD, PhD, of the Mayo Clinic in Rochester, Minn.

Dr. Qu said not only did disc height increase, but stem cell transplant also increased disc water content and improved appropriate gene expression.
"These exciting developments place us in a position to prepare for translation of stem cell therapy for degenerative disc disease into clinical trials," he said.

The increase in disc height was due to restoration in the transplant group of the nucleus pulposus structure, which refers to the jelly-like substance in the disc, and an increased amount of water content, which is critical for the appropriate function of the disc as a cushion for the spinal column, the researchers concluded.

The researchers performed a literature search of MEDLINE, EMBASE and PsycINFO databases and also manually searched reference lists for original, randomized, controlled trials on animals that examined the association between IVD stem cell transplant and the change of disc height.
Six studies met inclusion criteria. Differences between the studies necessitated the use of random-effects models to pool estimates of effect.

What they found was an over 23.6% increase in the disc height index in the transplant group compared with the placebo group (95% confidence interval [CI], 19.7-23.5; p < 0.001).
None of the 6 studies showed a decrease of the disc height index in the transplant group. Increases in the disc height index were statistically significant in all individual studies.

The authors commented that it is time to turn attention to the much-needed work of determining the safety, feasibility, efficacy of IVD stem cell transplant for humans.

"A hallmark of IVD degenerative disease is its poor self-repair capacity secondary to the loss of IVD cells.
However, current available treatments fail to address the loss of cells and cellular functions. In fact, many invasive treatments further damage the disc, causing further degeneration in the diseased level or adjacent levels," said the lead study author Jason Dauffenbach, DO.
"The goal of tissue engineering using stem cells is to restore the normal function and motion of the diseased human spine."

giovedì 16 ottobre 2014

Controllare i valori dell’acido urico aiuta a proteggere il cuore e i vasi


Tutti sanno che per guardarsi da infarti e ictus bisogna tenere sotto controllo la pressione, il colesterolo, la glicemia.
Nessuno finora aveva mai sospettato che anche l’acido urico potesse essere un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari: ignorato dai più, noto soltanto a chi soffre di gotta, è invece un nuovo nemico per cuore e vasi che dovremmo tutti imparare a conoscere.
Le ricerche che puntano il dito contro questa sostanza negli ultimi anni si sono accumulate e ormai gli esperti non hanno più dubbi: l’eccesso di acido urico nel sangue, ovvero l’iperuricemia, è corresponsabile di circa il 40 per cento di tutti gli infarti che si registrano ogni anno in Italia.

Misurare l’acido urico

Per questo è al via il progetto Medico amico del Sindacato nazionale autonomo medici italiani (Snami): l’obiettivo è far sì che la gente inizi almeno a sentir parlare di acido urico e decida di misurarlo, visto che il test sul sangue è semplice ed economico e che le stime parlano di almeno 13 milioni di italiani con l’uricemia troppo alta.
«Se per strada chiedessimo alle persone i valori di pressione, uno su due saprebbe indicarli, il 20 per cento sarebbe in grado di dire i propri livelli di colesterolo, ma meno di due su cento si rivelerebbero a conoscenza dell’uricemia - osserva Claudio Borghi, del Dipartimento di Medicina interna, dell’invecchiamento e malattie nefrologiche dell’Università di Bologna -.
Eppure, l’eccesso di acido urico è un fattore di rischio perfino più “pesante” delle alterazioni dei lipidi nel sangue».


Aumentato rischio di mortalità

Gli studi scientifici hanno, ad esempio, verificato che l’iperuricemia aumenta fino al 26 per cento il rischio di mortalità per cause cardiovascolari e del 22 per cento l’eventualità di un ictus, triplica il pericolo di diabete e ha effetti negativi sia sulla pressione arteriosa che sulla funzionalità dei reni. Non è un caso, perciò, che i malati di gotta, che hanno un’iperuricemia assai elevata, abbiano una probabilità parecchio più alta del normale di andare incontro a infarti e diabete.
«I meccanismi del danno da acido urico sono numerosi - interviene Angelo Testa, presidente Snami -.
I cristalli di urato, ad esempio, possono depositarsi sulla parete delle arterie creando piccole “asperità” su cui poi si depone il colesterolo, dando luogo a placche aterosclerotiche».
«Inoltre, - aggiunge Borghi - i processi biochimici di sintesi dell’acido urico portano alla formazione di una grossa quantità di radicali che favoriscono l’ossidazione, alterando la funzionalità della parete dei vasi e rendendoli perciò più suscettibili all’aterosclerosi».
L’eccesso di acido urico, inoltre, è legato a doppio filo alla sindrome metabolica, il complesso di anomalie del metabolismo che si manifesta con sovrappeso, resistenza all’insulina, colesterolo e trigliceridi oltre i limiti e pressione alta: si è infatti verificato che l’acido urico promuove alterazioni infiammatorie sulle cellule di grasso che preludono alla comparsa di obesità e diabete, mentre l’iperinsulinemia tipica della sindrome metabolica riduce l’escrezione di acido urico dai reni favorendone perciò la deposizione.
Un circolo vizioso insomma, in cui una sola cosa pare certa: è bene sapere quanto acido urico abbiamo in circolo e tenerlo basso.
«La soglia attuale è fissata in 6 milligrammi per decilitro di sangue: oltre i 6,5 sappiamo che gli urati possono iniziare precipitare dando avvio alla gotta - spiega Borghi -.
Sembra però che per il rischio cardiovascolare il valore limite debba essere un po’ abbassato, attorno a 5,5 mg/dl: già a questi livelli, infatti, la probabilità di aterosclerosi cresce, soprattutto nei pazienti che hanno altri fattori di rischio come ipertensione, colesterolo alto o iperglicemia».

mercoledì 27 agosto 2014

La lipoproteina (a) migliora la predizione del rischio solo se è molto elevata

Tratto dal sito della SISA (vedi articolo originale)

Il ruolo della lipoproteina (a) [Lp(a)] nella stima del rischio cardiovascolare è stato e continua ad essere oggetto di dibattito.
La Lp(a) è una particella simile alle LDL, se ne differenzia solo per la presenza di una glicoproteina denominata apo(a) che è legata covalentemente all'apo B.
A differenza delle altre lipoproteine che hanno una funzione biologica chiara come molecole di trasporto dei lipidi nel plasma, la funzione della Lp(a) è praticamente sconosciuta.
In vitro, è stato osservato che è in grado di oltrepassare l'intima arteriosa umana e, negli studi compiuti su animali, è stata riportata la capacità di Lp(a) di promuovere trombosi, infiammazione e formazione di cellule schiumose, effetti questi che interessano i momenti salienti dell'aterosclerosi: genesi, progressione ed evento clinico finale.
Nella maggior parte dei numerosi studi epidemiologici degli ultimi anni, l'associazione tra concentrazione ematica di Lp(a) e rischio cardiovascolare è confermata, ma l'associazione rimane modesta e l'aggiunta della Lp(a) ai tradizionali marcatori lipidici e non lipidici del rischio cardiovascolare ha un impatto solo marginale sulla classificazione dei pazienti nelle classi di rischio (1).
Il livello plasmatico di Lp(a) è estremamente variabile: da valori molto bassi, quasi indosabili (<0,2 mg/dL) a livelli molto elevati (>200 mg/dL), cioè 1.000 volte di più.
La variabilità dipende essenzialmente dalle isoforme dell'apo(a) che si differenziano tra loro per la dimensione della molecola che è determinata dal numero di ripetizioni delle tipiche strutture ad ansa, i kringle, in particolare dal numero di kringle 4 tipo 2 (2).
Più la molecola di apo(a) è piccola, più la concentrazione plasmatica di Lp(a) è elevata, probabilmente perché è più efficientemente secreta dagli epatociti di quanto non lo siano le isoforme di dimensioni maggiori.
Il polimorfismo del gene che codifica per le dimensioni dell'apo(a) è dunque il maggior predittore della concentrazione plasmatica di Lp(a) e rende conto del 40-70% della variazione dei livelli plasmatici della lipoproteina, cui contribuiscono comunque anche altre varianti genetiche (3).
Il forte ruolo della genetica nel determinare il livello della Lp(a) è responsabile della sua particolare distribuzione nella popolazione che, a differenza di quanto si osserva in generale per altri analiti, tra cui il colesterolo, non è normale, ma è fortemente asimmetrica e questo può essere causa delle difficoltà nell'accertare il peso di Lp(a) nella stima del rischio di aterosclerosi.
Recentemente sono state trovate due varianti genetiche caratterizzate da livelli particolarmente alti di Lp(a) di piccole dimensioni ed ambedue le varianti erano associate ad un elevato rischio cardiovascolare (4).
La prevalenza di queste varianti genetiche non è nota e dipende in gran parte dall'etnia della popolazione studiata.
Nello studio PROCARDIS (Precocious Coronary Artery Disease), condotto su oltre 6.000 soggetti, di cui circa la metà con malattia coronarica, reclutati in Gran Bretagna, Italia, Svezia e Germania, una persona su sei è risultata portatrice di una di queste due varianti e aveva di conseguenza livelli più elevati di Lp(a) e un rischio di infarto doppio rispetto ai soggetti con genotipo diverso.
I soggetti portatori di entrambe le varianti avevano un rischio elevato di più di quattro volte (4).
La Lp(a) si conferma quindi come un fattore di rischio cardiovascolare indipendente da quelli tradizionali quali colesterolo totale, colesterolo LDL, apoproteina B, ipertensione, diabete, obesità e fumo, ma il suo peso prognostico è rilevante solo quando i suoi livelli sono elevati.
Mancherebbe, cioè, una relazione continua tra livello di Lp(a) e rischio e questo, insieme a problemi di standardizzazione della metodica di misura, potrebbe spiegare i risultati spesso contrastanti degli studi epidemiologici.
La stima del rischio è basata sullo studio di popolazioni che per la maggior parte hanno bassi valori di Lp(a) e questo comporta che il peso della Lp(a) nella stima sia così diluito da diventare poco significativo.
La Kamstrup ed i suoi collaboratori hanno riclassificato nelle classi di rischio i pazienti che avevano un livello di Lp(a) maggiore di 47 mg/dL, corrispondente ad un valore superiore all'80esimo percentile della distribuzione nel loro campione di 8.720 pazienti ed hanno osservato che nel 23% di essi il rischio di infarto veniva riclassificato più correttamente ad un livello superiore se si aggiungeva al pannello dei fattori di rischio anche la Lp(a). Nessun miglioramento nella stima del rischio si è invece osservato nell'intera popolazione, a conferma del fatto che solo nei soggetti con valori elevati di Lp(a), la sua misura ha un impatto significativo sulla stima del rischio.
Da questo studio e da altri risulterebbe quindi inutile la misura della Lp(a) nella popolazione generale per una più precisa valutazione del rischio cardiovascolare, come del resto era già stato sottolineato da più parti e anche nelle recenti linee guida congiunte delle Società europee di cardiologia e dell'arteriosclerosi (5) che suggeriscono la determinazione della Lp(a) solo nei soggetti con un alto rischio cardiovascolare o con una forte familiarità per malattie aterosclerotiche precoci.
Rimane però il problema di cosa fare se il rischio cardiovascolare è elevato a causa dell'alta concentrazione di Lp(a).
Solo l'acido nicotinico aveva dimostrato una buona azione di riduzione di questa lipoproteina, ma il farmaco non è più disponibile. Non rimane altro che intervenire con più energia sugli altri fattori di rischio modificabili.

domenica 24 agosto 2014

Segnali di gas fra cellule


Tratto dal sito Galileo (vedi articolo originale)

Il monossido di azoto, noto per essere un pericoloso inquinante derivato dagli scarichi delle macchine, è in realtà prodotto anche dalle cellule degli animali superiori, le quali se ne servono per comunicare fra loro.
Questa in sintesi l’importantissima scoperta che è stata premiata quest’anno con il Nobel per la medicina, assegnato a Robert F. Furchgott della State University a New York, Luiss J. Ignarro, della University of California a Los Angeles e Ferid Murad, della Texas Medical School a Houston.

“L’aspetto rivoluzionario degli studi appena premiati con il Nobel, sta nel fatto che essi hanno aperto nuovi orizzonti sui mezzi utilizzati dalle cellule per trasmettersi messaggi, un’attività che è alla base dello sviluppo e della sopravvivenza di ogni animale”, spiega Pietro Calissano, direttore dell’Istituto di Neurobiologia del CNR, a Roma.
Fino a pochi anni fa infatti, si riteneva che le cellule potessero comunicare fra loro solo tramite ormoni, prodotti dalle ghiandole endocrine, o neurotrasmettitori, prodotti dalle cellule nervose.
Gli ormoni sono messaggeri che diffondono in tutto l’organismo, anche se vengono recepiti solo da quelle cellule che hanno sulla loro membrana le molecole adatte per legarli.
Possiamo immaginare che gli ormoni trasmettano messaggi in maniera simile ai giornali, che sono disponibili per moltissime persone ma vengono letti solo da coloro che hanno i mezzi per riceverli (ad esempio perché hanno denaro per comprarli o sanno leggere).
I neurotrasmettitori invece sono generalmente utilizzati da una cellula nervosa per trasmettere un messaggio a un’altra cellula, di solito vicina.
In questo senso il loro modo di comunicare è simile a quello ottenuto con una telefonata, che stabilisce un contatto diretto tra due interlocutori.

“Quello che nessuno si aspettava, almeno fino alle scoperte dei tre scienziati appena premiati”, continua Calissano, “è che esistesse un’altra possibile via di comunicazione fra cellule e che utilizzasse molecole insospettabili come dei gas, quali appunto il monossido di azoto”.
Quest’ultimo viene emesso da alcune cellule, fra cui cellule nervose o cellule dell’epitelio che riveste i vasi, e raggiunge le cellule vicine, senza però essere specifico per una sola “interlocutrice”, come i neurotrasmettitori, e senza diffondersi per lunghe distanze, come gli ormoni.

Il primo passo verso la scoperta dell’uso del monossido di azoto da parte delle cellule è stato compiuto nel 1977 da Ferid Murad.
In quel periodo lo scienziato studiava il meccanismo di azione della nitroglicerina, impiegata da più di un secolo come cura per l’angina pectoris, in quanto causa la dilatazione delle arterie.
Inaspettatamente Murad scoprì che la nitroglicerina provoca il rilassamento della muscolatura dei vasi sanguigni perché rilascia monossido di azoto.
Sebbene l’idea fosse affascinante, all’epoca non vi erano dati scientifici per approfondire questa tesi.
Alla svolta si è giunti nel 1986, quando a una conferenza scientifica Ignarro e Furchgott annunciarono di aver scoperto che il monossido di azoto viene utilizzato nel corpo umano per trasmettere segnali.
Era la prima volta che si ipotizzava una funzione del genere per un gas.

Secondo l’ipotesi degli scienziati, alcune molecole segnale, come ormoni e neurotrasmettitori, circolano nell’epitelio che riveste un vaso sanguigno parzialmente occluso da placche di colesterolo.
In risposta a tali segnali le cellule epiteliali producono monossido di azoto il quale, diffondendosi come una nuvoletta di gas, raggiunge le vicine cellule della muscolatura liscia che governano la contrazione e il rilascio del vaso.
Penetrando in queste cellule il monossido di azoto attiva una serie di reazioni chimiche che determinano il rilassamento dei muscoli, e quindi la dilatazione dell’arteria.

“Dal 1986 ad oggi le scoperte sull’azione del monossido di azoto si sono moltiplicate” dice Calissano, “infatti, come spesso avviene, anche il meccanismo di comunicazione tramite gas è utilizzato in diversi distretti dell’organismo per funzioni diverse.
Particolarmente interessante è stata ad esempio la scoperta che esso viene utilizzato dalle cellule nervose come via di comunicazione, in sinergia con i neurotrasmettitori classici.”
Oltre alle cellule dei vasi sanguigni e a quelle nervose si è recentemente scoperto che il monossido di azoto viene prodotto anche dalle cellule del sistema immunitario, che se ne servono come arma chimica, per intossicare i batteri e i parassiti.

Altrettanto interessanti sono gli sviluppi clinici, in breve tempo si spera di poter utilizzare il gas per curare più efficacemente l’aterosclerosi e buoni risultati sono stati ottenuti nella cura dell’alta pressione sanguigna nei polmoni dei bambini.
Inoltre lo studio del monossido di azoto come vasodilatatore ha permesso la messa a punto di farmaci contro l’impotenza, fra cui il Viagra.

“Molto promettenti sono gli studi sull’azione di questo gas nel cervello”, conclude Calissano, “ad esempio sembra che abbia un ruolo fondamentale nel determinare la morte delle cellule cerebrali in seguito a un’ischemia.
Inoltre è stata accertata la capacità del monossido di azoto di spingere alcune cellule verso l’apoptosi, ovvero verso una forma di suicidio programmato. Per questo motivo i ricercatori sperano di poterlo presto utilizzare per indurre alla morte le cellule tumorali.
Non bisogna poi dimenticare le interessanti prospettive aperte dalla successiva scoperta di altri gas con la medesima funzione di comunicare, quali ad esempio l’ossido di carbonio”.

domenica 29 giugno 2014

Lombalgia

Psoas

Il muscolo psoas ha il compito di sollevare la gamba verso il busto e o ruotarla all’esterno, compiendo azione a partire dalla parte interna della testa del femore (trocantere minore) arrivando fino all’articolazione tra le vertebre lombari e toraciche.

Questo muscolo, quando per diverse cause “si accorcia “, provoca forti dolori alla parte lombare della schiena.











Piriforme

Il muscolo piriforme è  il muscolo posto tra l’osso sacro e la testa del femore (gran trocantere)  deputato alla rotazione esterna della coscia, si può affermare che possieda il gran pregio di “avvolgere” il nervo sciatico in uscita dal bacino e diretto verso la coscia.

Questa caratteristica fa sì che, quando il “piriforme” si irriti,  faccia infiammare il detto nervo causando i classici episodi di “sciatica”, dolore ramificato alla coscia ed al polpaccio.






Esercizi allungamento

 Questo esercizio di stretching aiuta ad allungare il muscolo ileo-psoas.

sabato 7 giugno 2014

Prostate cancer biomarkers identified in seminal fluid

From ScienceDaily website (see original article)

Improved diagnosis and management of one of the most common cancers in men -- prostate cancer -- could result from research at the University of Adelaide, which has discovered that seminal fluid (semen) contains biomarkers for the disease.

Results of a study now published in the journal Endocrine-Related Cancer have shown that the presence of certain molecules in seminal fluid indicates not only whether a man has prostate cancer, but also the severity of the cancer.

Speaking in the lead-up to Men's Health Week (9-15 June), University of Adelaide research fellow and lead author Dr Luke Selth says the commonly used PSA (prostate specific antigen) test is by itself not ideal to test for the cancer.

"While the PSA test is very sensitive, it is not highly specific for prostate cancer," Dr Selth says. "This results in many unnecessary biopsies of non-malignant disease.
More problematically, PSA testing has resulted in substantial over-diagnosis and over-treatment of slow growing, non-lethal prostate cancers that could have been safely left alone.

"Biomarkers that can accurately detect prostate cancer at an early stage and identify aggressive tumors are urgently needed to improve patient care.
Identification of such biomarkers is a major focus of our research," he says.

Dr Selth, a Young Investigator of the Prostate Cancer Foundation (USA), is a member of the Freemasons Foundation Centre for Men's Health at the University of Adelaide and is based in the University's Dame Roma Mitchell Cancer Research Laboratories.

Using samples from 60 men, Dr Selth and colleagues discovered a number of small ribonucleic acid (RNA) molecules called microRNAs in seminal fluid that are known to be increased in prostate tumors.
The study showed that some of these microRNAs were surprisingly accurate in detecting cancer.

"The presence of these microRNAs enabled us to more accurately discriminate between patients who had cancer and those who didn't, compared with a standard PSA test," Dr Selth says.
"We also found that the one specific microRNA, miR-200b, could distinguish between men with low grade and higher grade tumors.
This is important because, as a potential prognostic tool, it will help to indicate the urgency and type of treatment required."

This research builds on previous work by Dr Selth's team, published in the British Journal of Cancer, which demonstrated that microRNAs in the blood can predict men who are likely to relapse after surgical removal of their prostate cancer.
"We are excited by the potential clinical application of microRNAs in a range of body fluids," he says.