domenica 5 novembre 2017

Mai esagerare con lo sport, più di 7 ore e mezza di allenamento a settimana fanno male

Fonte: Articolo La Repubblica Salute
Il troppo stroppia, forse anche nello sport: gli uomini che praticano attività fisica per più di 7 ore e mezza a settimana presentano un rischio aumentato dell'86% di depositi di calcio alle arterie coronarie.
E queste placche, in base a recenti evidenze, sembrano essere associate a eventi cardiovascolari anche fatali, come infarto e ictus.
A dimostrare l'associazione fra sport eccessivo e calcificazioni alle coronarie è uno studio Usa, chiamato Cardia (Coronary Artery Risk Development in Young Adult Study), condotto su migliaia di persone, che ha analizzato su un periodo di oltre 25 anni gli effetti a lungo termine di un esercizio sportivo molto frequente.
Il rischio emerso dall'indagine – che per ora rimane una semplice associazione statistica e non dimostra un rapporto di causa-effetto fra troppo sport e placche di calcio nelle arterie – riguarda principalmente gli individui di sesso maschile e di etnia bianca.
Tutti i dettagli della ricerca sono pubblicati su Mayo Clinic Proceedings (vedi sotto).

La calcificazione delle arterie consiste in depositi di calcio sulle arterie coronarie che, insieme alle note placche aterosclerotiche (composte da varie sostanze fra cui il famoso colesterolo), sembrano aumentare il rischio di infarto e altri eventi cardiovascolari.
Tuttavia il legame fra calcificazioni coronariche e rischio di infarto è ancora oggetto di studio da parte della comunità scientifica.
E lo studio Cardia nasce anche dall'esigenza di comprendere meglio questo legame, come ha spiegato Stefano Bianchi, cardiologo al Fatebenefratelli San Giovanni Calibita, Isola Tiberina di Roma.
“Questa ampia ricerca – ha sottolineato l'esperto – è nata per valutare se e in che modo la genetica e lo stile di vita, dalla dieta all'attività fisica, abbiano un'influenza sull'evoluzione della malattia coronarica e sul rischio di infarto”.

Per svolgere l'indagine gli autori hanno selezionato un campione di quasi 3.200 persone che, all'inizio dello studio, nel 1985,avevano un'età compresa fra i 18 e i 30 anni, mentre alla fine , nel 2011, erano fra i 43 e i 55 anni.
Il team di scienziati ha assegnato i partecipanti a diverse categorie in base all'attività fisica svolta, che è stata costantemente valutata durante intervalli di tempo regolari.
Le categorie comprendevano un gruppo di soggetti meno attivi, che avevano svolto meno di 150 minuti di esercizio a settimana; poi vi era un campione di persone che aveva svolto attività mediamente per 150 minuti a settimana, attenendosi dunque alle raccomandazioni delle linee guida internazionali; ed infine i più attivi, che si muovevano per più di 450 minuti a settimana – circa 7 ore e mezza –, superando di più di tre volte la quantità di esercizio raccomandata dagli esperti.

L'intensità dell'attività fisica presa in considerazione variava da un livello moderato, come una camminata o il giardinaggio, fino ad un grado intenso, come la corsa o il nuoto.
La quantità di attività fisica veniva poi messa in relazione con la malattia coronarica e il rischio di infarto.
“Questi due elementi – ha spiegato Bianchi – sono stati espressi attraverso il numero e la gravità delle placche di arteriosclerosi.
Queste placche sono state visionate dagli autori dello studio mediante una Tac coronarica”.

A sorpresa per gli autori dello studio, che non si aspettavano questo risultato, chi aveva svolto un'elevata attività fisica, superando le 7 ore e mezza a settimana, presentava, a distanza di 25 anni, una maggiore incidenza di calcificazioni alle coronarie intorno ai 50 anni.
Mentre i partecipanti del gruppo meno attivo, che avevano praticato meno di 150 minuti di esercizi a settimana, sono risultati anche meno a rischio di queste calcificazioni alle coronarie.
Nel caso di un'elevata attività sportiva, superiore alle 7 ore e mezza a settimana, il rischio di placche di calcio alle coronarie aumentava dell'86% nelle persone di sesso maschile e etnia bianca, mentre cresceva meno, cioè del 27%, se si considerano tutte le categorie di persone (entrambi i sessi e tutte le etnie).

“Questa sotto-analisi – ha illustrato Bianchi – all'interno del vasto studio Cardia, pubblicata da Mayo Clinic, sembrerebbe mostrare che l’eccessiva attività fisica, tre volte superiore a quella consigliata dalle linee guida internazionali, possa essere controproducente per la salute delle coronarie”.
Le ragioni di questo dato sono ancora da approfondire e pongono interessanti quesiti, dato che ad esempio gli uomini caucasici sembrano essere più a rischio. Ma c'è anche un'altra faccia della medaglia: un'elevata attività fisica potrebbe anche fungere da elemento protettivo contro la rottura delle placche aterosclerotiche, dunque contro gli attacchi di cuore. Un elemento ancora tutto da valutare, che apre il dibattito su importanti aspetti della salute cardiovascolare.

Quella di oggi, inoltre, non è la prima ricerca sul tema delle calcificazioni coronariche, che già in base a ricerche precedenti sembrano


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Articolo originale (Inglese)

sabato 22 luglio 2017

Over 70, un cocktail di proteine per 'ringiovanire' i muscoli

Tratto da Repubblica Ricerca (link articolo originale)

IL DECLINO nella massa e funzione dei muscoli che avviene normalmente con l’età non è un destino obbligato: lo si può contrastare, anche passati i settant’anni, con risultati discreti (almeno nel breve/medio periodo) con gli integratori di proteine, perfino se non si fa esercizio fisico.
A suggerirlo è uno studio del Metabolism Research Group della McMaster University di Hamilton (Canada) pubblicato su Plos One.

LO STUDIO
I ricercatori hanno studiato gli effetti su gruppo di 49 uomini, età media 73 anni, di un cocktail di diversi integratori: proteine del siero del latte, creatina, vitamina D, calcio e omega 3.
Sono stati formati due gruppi. Per sei settimane, durante le quali nessun soggetto ha svolto particolare attività fisica, i soggetti del primo gruppo hanno bevuto due volte al giorno il cocktail proteinico, gli altri un placebo.
Allo scadere del periodo, i membri del primo gruppo avevano in media acquisito 700 grammi di massa magra.
«E’ la prima volta che un supplemento proteico multi-ingrediente viene trovato in grado di aumentare la massa muscolare magra negli anziani anche in assenza di esercizio fisico» spiega Gianni Parise, ricercatore alla McMaster University di Hamilton (Canada).
Difficile isolare il singolo supplemento più efficace: «Abbiamo voluto studiare l’effetto di un cocktail di sostanze perché ogni supplemento agisce per vie biochimiche diverse – ad esempio le proteine del siero del latte stimolano i processi cellulari che sviluppano i muscoli, invece la creatina ha effetto aumentando la ritenzione d’acqua e gonfiando le cellule - e non tutti rispondono allo stesso modo agli stessi stimoli: combinare più supplementi ci è parso il modo per massimizzare gli effetti».

La seconda fase dell’esperimento ha sottoposto entrambi i gruppi a un regime di esercizi di resistenza fisica (due volte alla settimana) e allenamento a intervalli ad alta intensità (una vota alla settimana).
Il primo gruppo ha continuato per tutto il tempo ad assumere il cocktail di integratori.
Il risultato questa volta non ha visto un aumento di massa muscolare nel primo gruppo, ma un incremento nella forza fisica. «Forse i nostri strumenti non sono sufficientemente precisi per individuare piccoli aumenti muscolari, mentre è più facile misurare l’aumento di forza» spiega Gianni Parise.
«Comunque è del tutto prevedibile che l’aumento di massa muscolare ottenuto nelle prime 6 settimane, seguito da attività fisica, si traduca in un aumento della forza».

GLI INGREDIENTI
Possono esserci delle controindicazioni per l’assunzione di integratori a una certa età?
Le proteine del siero del latte, così come gli altri ingredienti del cocktail che abbiamo somministrato, sono innocue.
Tranne che per una minoranza di individui, che con l’età possono sviluppare un’intolleranza: ad esempio chi soffre di gotta può avere problemi con una quantità di proteine che si somma a quella della dieta quotidiana» risponde Parise.
La nuova ricerca può dare indicazioni utili per chi è in età avanzata e non può seguire un programma strutturato di allenamento: «Ad esempio persone che hanno subito un intervento che limita le possibilità di movimento» osserva Parise.
«E’ importante tuttavia specificare che i supplementi di proteine non possono e non devono essere considerati un sostituto per l’attività fisica».

giovedì 22 giugno 2017

Bisfenolo A: interferente endocrino dannoso per la salute

Fonte: Il Fatto Alimentare (link articolo originale)

Il bisfenolo A (Bpa), già vietato in molti paesi in alcuni oggetti come quelli per l’alimentazione dei bambini in quanto interferente endocrino, favorirebbe, negli animali esposti nei primi giorni di vita, l’accumulo di grasso nel fegato nell’età adulta.
E il suo sostituto più popolare, spesso utilizzato nei prodotti Bpa-free, il bisfenolo S o Bps, promuoverebbe lo sviluppo di cellule di tumore al seno.
Questo è il quadro sconfortante emerso in due diversi studi presentati nei giorni scorsi al congresso della Endocrine society statunitense di Orlando, in Florida.

Nel primo i ricercatori del Baylor college of medicine di Houston, in Texas, hanno trattato i ratti molto piccoli con il Bpa o con una sostanza inerte in dosi basse e simili a quelle di una contaminazione ambientale nei primi cinque giorni di vita, cruciali per il completamento dello sviluppo del fegato.
Quindi hanno esaminato il tessuto epatico degli stessi animali diventati adulti scoprendo che, in quelli trattati, una dieta ad alte dosi di grassi si traduce nell’accumulo degli stessi, nell’aumento del colesterolo totale e di quello cosiddetto cattivo (le Ldl), nonché nell’espressione di alcuni geni associati alle patologie del fegato: tutte caratteristiche che predispongono alla steatosi epatica non alcolica, cioè a una condizione grave che molto spesso prelude alla cirrosi; niente di simile si verifica nei ratti non esposti al Bpa nei primi giorni.

Nel secondo studio condotto dai ricercatori della University school of medicine di Rochester, cellule di tumore al seno positivo agli estrogeni sono state trattate con diverse dosi di Bps e con estradiolo, il principale estrogeno coinvolto nello sviluppo delle cellule stesse.
Il risultato è stato che, rispetto a cellule non trattate, le prime sono cresciute molto di più già dopo 24 ore, e dopo sei giorni l’aumento rispetto ai controlli era del 12% alle dosi più basse e del 60% a quelle più alte.
Ulteriori prove hanno confermato la pericolosità della proliferazione, dal momento che le cellule hanno mostrato tutti i caratteri di una spiccata malignità.

Anche se si tratta di studi su modelli, entrambi confermano quanto emerso negli ultimi anni: i bisfenoli sono dannosi per la salute, e i sostituti del Bpa non dovrebbero essere impiegati fino a quando non si avranno dati più completi sui loro possibili effetti, anche perché la struttura chimica è molto simile in tutti i membri della categoria, ed è quindi logico aspettarsi che lo siano anche le azioni sui sistemi biologici.

venerdì 16 giugno 2017

Tumori, scoperto l'interruttore del cancro

Tratto da La Repubblica Salute (articolo originale)

LA RIVISTA Science pubblica un lavoro che potrebbe aprire nuove strade alla lotta al cancro.
Prima firma è quella  di Chiara Di Malta, ricercatrice nel team di un big della nostra ricerca, Andrea Ballabio direttore dell'Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli e docente di Genetica Medica all'Università Federico II di Napoli. Oltre che dalla Fondazione Telethon, il lavoro è stato finanziato anche dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc).

«Questa è una storia che parte da lontano – spiega Ballabio – e in particolare dal nostro “storico” interesse per quegli organelli cellulari chiamati lisosomi che sono coinvolti in un ampio gruppo di malattie genetiche rare, quelle da accumulo lisosomiale appunto. In queste gravi patologie, a causa di un difetto genetico, i lisosomi non svolgono a dovere il loro compito, ovvero quello di neutralizzare, grazie al loro ampio corredo di enzimi, le sostanze di scarto: il risultato è che queste sostanze si accumulano nelle cellule, danneggiandole irreversibilmente.
Studiando il funzionamento dei lisosomi abbiamo però scoperto che questi organelli non sono dei semplici “spazzini”, ma dei fini regolatori del nostro metabolismo».

Nel 2009, infatti, il direttore del Tigem e il suo team hanno descritto per la prima volta – ancora sulle pagine di Science – un gene chiamato TFEB che è in grado di regolare da solo l’attività di molti altri geni coinvolti sia nella produzione sia nel funzionamento dei lisosomi.
«Ci siamo resi conto da subito – continua Ballabio – di essere di fronte a un meccanismo di “pulizia” delle nostre cellule assolutamente nuovo e finemente regolato, potenzialmente sfruttabile per evitare l'accumulo di sostanze tossiche tipico di svariate malattie degenerative, di origine genetica ma non solo».
Gli studi successivi condotti al Tigem hanno infatti confermato che i lisosomi funzionano come veri e propri termovalorizzatori, degradando le molecole già utilizzate e ormai inutili per ricavarne energia.
Questo è particolarmente utile in assenza di nutrienti e nella risposta all’esercizio fisico prolungato: quando ci sono poche risorse a disposizione e l'organismo quindi sfrutta le proprie riserve endogene di energia. In presenza di cibo, invece, questa via metabolica viene normalmente silenziata.
Il nuovo studio dimostra che se questo meccanismo si inceppa è in grado di promuovere la crescita tumorale.
I ricercatori del Tigem hanno infatti dimostrato come diversi tipi di cellule tumorali (melanoma, tumore del rene e del pancreas) siano in grado di replicarsi in modo indiscriminato proprio perché questo sistema di regolazione “anti-spreco” è sempre attivo.
Studi preliminari dei ricercatori del Tigem dimostrano che l’inibizione di questo meccanismo blocca la crescita tumorale, suggerendo quindi una nuova strategia per la terapia dei tumori.

«Questo studio, pubblicato su Science, una delle più importanti riviste scientifiche internazionali, conferma ancora una volta quanto le malattie genetiche rare siano un eccezionale banco di prova per la scoperta di meccanismi biologici fondamentali e la messa a punto di strategie terapeutiche innovative come la terapia genica - commenta il direttore generale della Fondazione Telethon Francesca Pasinelli – A titolo di esempio, basti ricordare come le statine, farmaci comunemente usati per abbassare i livelli di colesterolo, siano stati sviluppati a partire dallo studio di una condizione rara, l’ipercolesterolemia familiare, in cui l’accumulo di questa sostanza dipende da un difetto genetico ereditario.
Sostenere e promuovere ricerca di qualità sulle malattie genetiche rare è quindi importante non solo per chi è direttamente colpito da queste gravi patologie, ma anche per la collettività intera».

“L’unione delle forze di due tra le più importanti organizzazioni non profit a supporto della ricerca in Italia ha prodotto uno straordinario risultato scientifico – aggiunge Niccolò Contucci, Direttore Generale dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro - Siamo orgogliosi di avere finanziato insieme a Telethon questo importante lavoro che costruisce un ponte tra la conoscenza di base e lo sviluppo di nuove terapie per la cura del cancro.
Una scoperta che merita la pubblicazione sull’autorevole rivista Science e contribuisce a posizionare la ricerca italiana indipendente tra le eccellenze del panorama scientifico internazionale”

venerdì 24 febbraio 2017

[Esplora il significato del termine: Lavoratori esposti all’amianto: si può prevenire il mesotelioma coi carciofi?] Lavoratori esposti all’amianto: si può prevenire il mesotelioma coi carciofi?


Fonte: Corriere Salute

Prevenire uno dei tumori più temibili e ancora letali, il mesotelioma, con i carciofi.
L’idea, tutta italiana, appare azzardata ma ha già dato buoni risultati sia negli studi di laboratorio che sulle cavie. Tanto da far ottenere ai ricercatori il via libera delle autorità per la sperimentazione sulle persone.
«Gli studi preclinici, condotti all’Istituto Tumori Regina Elena di Roma sia su modelli cellulari di mesotelioma che su topi, hanno dimostrato che gli estratti di carciofo posseggono attività antitumorali - spiega Giovanni Blandino, responsabile del Laboratorio di Oncogenomica Traslazionale del Regina Elena, che ha lavorato in collaborazione con Sabrina Strano, ricercatrice dell’Area di Medicina Molecolare dello stesso Istituto -.
Se le nostre intuizioni venissero confermate anche sull’uomo apriremmo la strada a una rivoluzione».
Il trial clinico è stato presentato oggi a Roma, durante l’International Workshop on metabolism, diet and chronic disease, un appuntamento per fare il punto sulle evidenze scientifiche riguardanti stili di vita e neoplasie.

Mesotelioma: ogni anno 2mila casi in Italia

Il mesotelioma ogni anno colpisce oltre duemila persone solo in Italia, ma la sua incidenza è in continua crescita ed è atteso un picco di malati entro il 2020.
È il tumore polmonare direttamente collegato all’esposizione da amianto, materiale bandito dall’Italia da oltre vent’anni ma ancora diffusissimo (nell’ambiente ne restano circa cinque quintali per cittadino, 32 milioni di tonnellate) e al centro del processo contro i dirigenti dell’Eternit (dopo la storica condanna d’appello del 2013 si è ora in attesa della Cassazione). È una fra le forme di cancro tutt’oggi letali, perché una volta diagnosticato non lascia scampo e la sopravvivenza dei pazienti nella stragrande maggioranza de casi purtroppo non supera i 12 mesi.
Ed è subdolo, perché colpisce a distanza di anni: possono passarne perfino 40-45 tra l’inizio dell’esposizione all’amianto e il momento in cui si manifesta la malattia.
Colpa delle fibre di amianto inalate tanti anni prima, che poi fanno ammalare soprattutto i lavoratori esposti: quelli delle fabbriche di cemento-amianto e dei cantieri navali, ma è stato molto usato anche per costruire case, scuole, ospedali.

Come funziona l’estratto di carciofo

A fronte di un quadro così fosco, le speranze riposte nell’estratto di carciofo crescono in modo esponenziale: «È appena partita la sperimentazione di fase due condotta su lavoratori canadesi esposti all’asbesto - spiega Paola Muti, ricercatrice italiana che lavora in Canada presso il Dipartimento di Oncologia della McMaster University, che sta lavorando insieme ai colleghi romani -.
L’obiettivo è dimostrare che l’estratto, realizzato in laboratorio semplicemente prendendo le foglie del carciofo ed “elaborandole”, impedisce che le cellule esposte ad amianto esprimano a pieno il potenziale cancerogeno, prolifichino e diano luogo a effettivamente un tumore.
I partecipanti, ad alto rischio di sviluppare il mesotelioma e già sofferenti di altre patologie benigne dovute all’amianto, vengono trattati con quattro compresse di estratti di carciofo al giorno, del tutto prive di effetti collaterali.
E sono monitorati con cadenza trimestrale, attraverso biomarcatori sierici (piccoli RNA non-codificanti e una proteina secreta dal mesotelio, la mesotelina).
In particolare - continua Muti - la mesotelina è prodotta dal mesotelio, esposto a infiammazione, ed è molto aumentata nel caso di esposizione all’asbesto e nel mesotelioma.
L’ipotesi di questo trial è quella che il carciofo sia in grado di ridurre il livello di mesotelina sierica.
In sostanza, si tratta di usare la mesotelina come biomarcatore di efficacia anti-cancerogena dell’estratto vegetale».
Se il trial clinico confermerà l’ipotesi si prevede un successivo trial di fase tre, su un numero molto ampio di persone esposte all’asbesto e della durata di diversi anni.
«Per adesso le premesse derivanti dai dati sperimentali sono ottime, la speranza è che vengano confermate nell’uomo» concludono i ricercatori.

sabato 21 gennaio 2017

Patrizia, l’oncologa italiana che conquista Parigi in una notte con il libro che racconta «come si uccide il cancro»

Fonte: Corriere della Sera (27ma ora)

Un libro appena uscito sta avendo molto successo in Francia, è scritto da una scienziata italiana, la professoressa Patrizia Paterlini-Bréchot dell’università Paris-Descartes.
Si intitola "Tuer le cancer", "uccidere il cancro" è edito da Stock, ed è un viaggio appassionante nella battaglia contro i tumori e nella vita personale di Paterlini-Bréchot.
Le due avventure in buona parte coincidono. Nata a Reggio Emilia, si laurea a Modena vincendo il premio per la migliore tesi di medicina del 1978.
Segue i corsi dell’«Infallibile Maestro», come lei chiama nel libro il professor Mario Coppo, e un giorno la giovane dottoressa Paterlini incontra il suo «paziente zero».

Un uomo destinato a morire, in pochi giorni, di cancro al pancreas. Combattuta tra il dirgli la verità o meno, cerca in ogni modo di aiutarlo e di alleviare le sue sofferenze ma l’ultimo sguardo durante la crisi finale è per lei: «Occhi immensi, spalancati, che meglio di qualsiasi parola esprimono il suo disprezzo e mi accusano: “Mi hai tradita!”».
Patrizia Paterlini decide che dedicherà la sua vita a combattere il cancro. Va a Parigi per uno stage di biologia molecolare, entra nella squadra del professor Christian Bréchot e se ne innamora, ricambiata.
Si trasferisce definitivamente in Francia e indirizza le sue ricerche verso una scoperta straordinaria, che potrebbe un giorno valerle il premio Nobel.
Da circa un anno e mezzo è a disposizione dei pazienti il test «Iset» (Isolation by Size of Epithelial Tumor Cells) per l’individuazione delle cellule tumorali nel sangue.

«Con un semplice prelievo si può scoprire se nell’organismo si sta sviluppando un tumore, anche se è a uno stadio talmente iniziale che non ha ancora generato una massa rilevabile da una Tac o una radiografia», spiega l’oncologa.
Il guadagno di tempo è evidente, e il tempo è tutto.
Con questo sistema il professor Paul Hofman a Nizza ha scoperto cellule tumorali nel sangue di cinque pazienti a rischio, fumatori affetti da broncopatia, ben prima che il cancro al polmone fosse visibile.
Il test costa 486 euro, non ancora rimborsati dall’assistenza sanitaria francese, ma il punto è che «uccidere il cancro» prima che prenda forza è un traguardo a portata di mano.
Sarebbe arrivata a questa scoperta se fosse rimasta in Italia? «All’epoca gli studi di biologia molecolare erano più avanzati in Francia.
Ma credo che anche la mia formazione italiana abbia contato molto».
Quale sarà il passaggio successivo? «Con la mia équipe stiamo cercando di rendere il test ancora più preciso.
Oggi indica se c’è un tumore in corso, e altri esami dicono poi in quale organo.
In futuro il test potrebbe dirci subito qual è l’organo interessato».

Risorse

Sito web ISET

lunedì 16 gennaio 2017

Test sanguin : un produit du microbiote prédit les incidents cardiaques

Source: Sciences avenir

En mesurant dans le sang le TMAO, une molécule produite par le microbiote pendant la digestion, il serait possible de prévoir jusqu'à 7 ans à l'avance les accidents cardiaques, selon une étude américano-suisse.

L’oxyde de  triméthylamine (TMAO), un produit issu de la transformation de certains aliments par les bactéries intestinales (microbiote), serait un bon indicateur de futurs incidents cardiaques.
Sa concentration sanguine, mesurée chez des patients ayant déjà eu une alerte, serait, en effet, annonciatrice d’évènements graves dans les mois qui suivent, voire de décès.
Tel est le résultat obtenu par les chercheurs de l’Université de Cleveland (Etats-Unis), menés par Stanley Hazen, et par différents hôpitaux suisses dont l’hôpital universitaire de Zurich et publié dans l’European Heart Journal.

TMAO. Les chercheurs proposent donc d'associer un nouveau test à la "panoplie" déjà existante et utilisée lors d'une suspicion de syndrome coronarien aigu (obstruction des artères coronaires) ou d'infarctus du myocarde : examen clinique,  électro-cardiogramme et dosage biologique (Troponine).
Ces examens, pratiqués aux urgences, viennent en effet confirmer ou non le diagnostic et induire un traitement lorsqu'un patient se présente avec des symptômes inquiétants (douleur à la poitrine, au cou, aux épaules et au dos, essoufflement, nausées, perte de conscience...).
Désormais, il pourrait donc y avoir, en plus, le dosage du TMAO.

Un "outil additionnel" pour la prédiction
Le TMAO est produit par les bactéries intestinales lorsqu’on ingère des aliments riches en lécithine et phospholipides choline tels que la viande rouge, les œufs ou les produits laitiers.
Des études antérieures ont montré qu'il était impliqué dans le développement de l’athérosclérose, dépôt de plaque lipidique dans les artères (voir schéma).
En 2013, l’équipe de Stanley Hazen avait démontré dans une étude du New England Journal of Medicine (4007 personnes suivies en cardiologie sur 3 ans) que sa présence dans le plasma et les urines étaient prédictifs d’accidents cardiovasculaires. Cette même équipe de Cleveland, associée à des hôpitaux suisses, ont ensuite observé deux cohortes de patients (2213), américains et suisses, arrivés aux urgences avec une douleur thoracique.
Ceux-ci ont alors bénéficié, en plus des tests classiques, d'une mesure du taux plasmatique de TMAO avant d'être suivis pendant plusieurs années.
Résultat : les patients dont le niveau de TMAO plasmatique initial était le plus élevé se sont avérés les plus à risque de faire un incident cardiaque majeur dans les 30 jours à 6 mois suivant le test.
Le niveau de TMAO était également plus élevé parmi ceux qui sont décédés dans les sept années suivantes !
« L’étude démontre pour la première fois que les niveaux de TMAO sont associés à un risque à moyen terme d’incidents cardiaques majeurs  mais aussi à une mortalité à long terme, parmi des patients ayant un syndrome coronariens aigu", explique Thomas Fusher de l’Université de Zurich, co-auteur de l’étude.

Les auteurs concluent que le dosage du TMAO du microbiote pourrait donc devenir "un outil additionnel pour la prédiction". En attendant, les cardiologues font-ils aussi des recommandations alimentaires pour faire baisser naturellement le taux de TMAO ?
"Les résultats ne sont pas encore clairs sur ce point, répond Thomas Fusher. Pour cela, nous devons poursuivre nos travaux".

venerdì 13 gennaio 2017

Scoperto perché lo stress manda in tilt il cuore

Fonte: La Repubblica Ricerca

Se siamo stressati mettiamo a rischio anche il nostro cuore.
Può farci male come fumare o avere la pressione alta.
Da tempo si conosceva la relazione fra stati di tensione e affaticamento con le malattie cardiache, ma ora uno studio, pubblicato su 'The Lancet', ha evidenziato che l'amigdala, quella parte del cervello che gestisce le emozioni, diventa iperattiva e aziona le difese immunitarie scatenando processi infiammatori deleteri per l'apparato cardiovascolare.

Stress e sistema immunitario
I ricercatori del Massachusetts General Hospital e dell'Icahn School of Medicine at Mount Sinai (Ismms) di New York, hanno scoperto che l'accresciuta attività dell'amigdala, l'area che elabora le emozioni come l'ansia, la paura o la rabbia, segnala al midollo osseo di produrre più cellule di globuli bianchi, che a loro volta agiscono sulle arterie infiammandole.
In pratica il cervello manda al sistema immunitario 'un segnale sbagliato' e quest'ultimo, in determinate condizioni, può causare infarto, angina e ictus.
Il collegamento potenziale "aumenta la possibilità che ridurre le stress può produrre benefici che vanno oltre il miglior senso di benessere psicologico", scrive l'autore, Ahmed Tawakol, del Massachusetts General Hospital e professore associato alla Harvard Medical School.

Lo studio
Gli autori dello studio hanno analizzando i dati di imaging e cartelle cliniche di quasi 300 persone sottoposte a Pet/Ct principalmente per screening oncologici, con un radiofarmaco che misura l'attività delle aree del cervello da un lato e mette in luce l'infiammazione nelle arterie dall'altro.
Tra i soggetti analizzati nessuno aveva un tumore attivo o malattie cardiovascolari quando si è sottoposto all'esame.
Dopo un periodo di monitoraggio dell'intero campione della durata media di quasi 4 anni, è emerso che i soggetti più stressati e con amigdala più attiva sviluppano malattie cardiovascolari con maggiore frequenza.
"Mentre un collegamento tra stress e malattie cardiache è stato da tempo stabilito, il meccanismo che media questo rischio non era stato chiaramente individuato  -  spiega Ahmed Tawakol, della divisione di cardiologia del Massachusetts General Hospital, autore principale del lavoro - .
Gli studi sugli animali hanno dimostrato che lo stress sollecita il midollo osseo a produrre globuli bianchi, portando a un'infiammazione arteriosa.
La nostra ricerca suggerisce che un percorso analogo esiste anche negli esseri umani".

Gli esperti hanno ripetuto lo studio su 13 soggetti con disturbo da stress post-traumatico, una condizione che segue a un forte trauma e hanno visto che avevano amigdala e sistema immunitario più attivi, una maggiore infiammazione dei vasi e maggior rischio di malattie cardiovascolari.

Traumi e malattie
"Già in passato si era già visto che pazienti con problemi neuropsichiatrici come ad esempio, con sindrome ansiosa depressiva o con stress post-straumatico, avevano un'attività abnorme dell'amigdala - spiega Furio Colivicchi, direttore dell'UOC di Cardiologia del San Filippo Neri - .
Grazie a questi esami è stato possibile vedere quali sono le aree del cervello 'attive' in determinati momenti e a intuire per la prima volta il collegamento fra stress e il funzionamento di milza e midollo osseo che regolano il sistema immunitario".

Stressati e 'fragili'
L'amigdala è la nostra 'memoria emotiva'. Quando siamo molto stressati siamo più fragili? "Persone stressate o per un trauma, o per una situazione di deprivazione sociale, per un abbandono o un lutto, sono in una situazione sfavorevole.
E' chiaro che è necessario un concorso di elementi per arrivare all'infarto, ma possiamo dire che un forte stress può favorire un danno vascolare.
Il sistema immunitario 'si attiva' perché riceve un ordine sbagliato dall'amigdala e questa reazione si ritorce sulle arterie".