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martedì 1 gennaio 2019

Padova, intervento record. Asportato tumore dal cuore senza aprire il torace

Fonte: La Repubblica (articolo originale)

Intervento eccezionale di chirurgia oncologica a Padova, dove una task force di specialisti - cardiochirurghi, urologi, chirurghi epatobiliari - ha rimosso un tumore renale, esteso al cuore, senza aprire il torace. Il tutto grazie a una nuova tecnica, usata - informa l'Azienda ospedaliera della città veneta - per la prima volta al mondo, che ha consentito di aspirare la parte cancerosa.

L'operazione, realizzata da 28 professionisti susseguitisi in sala operatoria, aveva come paziente un 77enne le cui condizioni non consentivano l'operazione tradizionale, più invasiva. L'intervento "è stato portato a termine 'aspirando' la massa senza aprire il torace con una nuova tecnica. E' la prima volta al mondo e ora il paziente è in recupero e tornerà presto alla sua vita normale". Lo comunica in una nota l'Azienda ospedaliera di Padova. "Questo tipo di intervento - proseguono i medici - viene normalmente eseguito con l'asportazione del rene coinvolto dal tumore attraverso l'apertura dell'addome e la rimozione del trombo/tumore dal cuore attraverso l'apertura del torace e del cuore con l'ausilio del bypass cardiopolmonare totale in collaborazione tra urologi e cardiochirurghi".

"Nel caso specifico, per la presenza delle numerose patologie ed in particolare per il pregresso intervento con i bypass localizzati nei siti chirurgici strettamente connessi alla riapertura, l'approccio tradizionale era proibitivo", ricordano gli specialisti. Così, coordinati e diretti dal professor Gino Gerosa, direttore della Cardiochirurgia, i chirurghi hanno studiato a tavolino il caso clinico.

"La storia di questo paziente ha imposto di cercare una soluzione alternativa all'intervento classico, e così è stata messa in piedi la task force di cardiochirurghi, urologi e chirurghi epatobiliari, coadiuvati da cardioanestesisti e personale sanitario per realizzare il delicato intervento, mai effettuato prima - sottolineano gli esperti - E' stato optato per l'approccio innovativo microinvasivo con sistema AngioVAC e entrando nel vivo dell'intervento i professionisti si sono susseguiti per specialità, alternandosi al tavolo operatorio come in una staffetta".

"Il nuovo approccio con l'inserimento, senza incisioni chirurgiche, della cannula di aspirazione a livello di una vena del collo collegata ad una pompa centrifuga e ad un filtro ha permesso come un'aspirapolvere l'aspirazione ad alto flusso del tumore - ricordano i medici - Il sangue aspirato dall'interno del cuore durante l'intervento chirurgico è stato filtrato e re-immesso nel circolo arterioso attraverso un'altra cannula posta all'altezza dell'arteria femorale.Per la prima volta al mondo, la particolare configurazione artero-venosa del sistema AngioVAC in modalità Ecmo non solo ha permesso l'aspirazione della massa dal cuore ma ha garantito la stabilizzazione del paziente durante tutte le fasi dell'intervento chirurgico"

Ma quali sono le prospettive future di questo innovativo approccio? "Il nuovo approccio chirurgico microinvasivo permette l'asportazione di masse intracardiache da tumori renali senza aprire il torace, a cuore battente, senza l'ausilio della circolazione extra corporea con una sola incisione a livello dell'inguine - rispondono gli specialisti - L'innovativa configurazione artero-venosa in modalità Ecmo consente l'aspirazione della massa intracardiaca e la stabilizzazione del paziente durante tutte le fasi dell'intervento".

"Interventi di questa complessità, possono essere realizzati in centri altamente specializzati grazie al supporto di tecnologie all'avanguardia e di personale altamente professionale, duttile ad esperienze multidisciplinari", concludono gli esperti.

L'intervento è stato salutato dal presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, come un episodio che "chiude nel migliore dei modi un anno di successi della sanità veneta e costituisce un viatico di progresso scientifico, non solo per il 2019, ma anche per gli anni a venire".

giovedì 23 agosto 2018

Alimenti e infiammazione: i cibi che contribuiscono a creare uno stato di alterazione causa di molte malattie?

L’indice infiammatorio degli alimenti è un concetto poco conosciuto dalla maggior parte dei consumatori, anche se trova uno spazio rilevante nell’ambito medico nutrizinale.
Il blogger Günther Karl Fuchs autore di Papille Vagabonde in questo articolo spiega qual'è la relazione tra il cibo ingerito e lo stato di infiammazione che si può  generare nell’organismo.

Che cos’è l’indice di infiammazione degli alimenti? E a chi serve?
Attualmente è un indice utilizzato più negli studi medico-scientifici che nella quotidianità.
L’infiammazione è associata a una serie di condizioni di salute croniche, come il cancro e le malattie cardiovascolari, quindi ridurla può aiutare a prevenire o, in certi casi, trattare queste patologie.
Diversi studi indicano che l’alimentazione può contribuire a modulare l’infiammazione.
La ricerca negli ultimi anni ha dimostrato che ci sono alimenti in grado di stimolare uno stato infiammatorio, e altri che possono contribuire a ridurlo.

L’infiammazione è una risposta difensiva dell’organismo ad attacchi esterni, una normale reazione del  sistema immunitario.
Il problema sorge quando la situazione dura a lungo e si cronicizza nel tempo.
Quando accade si parla di infiammazione cronica sistemica di basso grado (chronic low-grade inflamation), una condizione che può stimolare l’invecchiamento cellulare e favorire, secondo i ricercatori, lo sviluppo di patologie degenerative come le malattie cardiovascolari, l’artrite reumatoide, il diabete e l’Alzheimer.
Per questa ragione i nutrizionisti invitano a seguire un’alimentazione ricca di cibi antinfiammatori e con meno cibi pro-infiammatori.

L’indice si calcola in base all’impatto della proteina C reattiva, una proteina misurabile nel sangue prodotta dal fegato, che funge da marker biologico stabile per la rilevazione dell’infiammazione in una fase precoce.
Non è la prima volta che si sente parlare della proteina C reattiva (PCR), in quanto si tratta di un esame del sangue che può essere prescritto quando c’è il sospetto di un infezione batterica, una meningite, cancro, ma anche una malattia infiammatoria intestinale, autoimmune, l’artrite reumatoide, un’artrite cronica o il morbo di Chron.

Una volta valutata la reazione dell’alimento alla proteina C reattiva, i cibi vengono suddivisi in 3 categorie: pro-infiammatori, antinfiammatori o neutri.
Non è escluso che in futuro questa classificazione possa  diventare un indice più noto al pubblico, in virtù dell’eccessivo aumento delle patologie legate all’infiammazione.

Gli alimenti pro-infiammatori sono quelli che per le loro caratteristiche hanno la possibilità di peggiorare lo stato d’infiammazione.
In genere si tratta di alimenti industriali molto elaborati che contengono tra gli ingredienti oltre a grassi saturi e colesterolo, anche additivi, coloranti, dolcificanti ed esaltatori di sapidità:

    Dolci e merendine industriali
    Dadi da brodo
    Zuppe pronte
    Sughi pronti
    Carni elaborate
    Salumi (per il contenuto di grassi saturi e colesterolo)
    Würstel
    Filetti di pollo e pesce impanati
    Alcol
    Patate e chips*

Gli alimenti che riducono lo stato infiammatorio, in genere sono quelli con molte fibre e alcuni micronutrienti contenuti in frutta e verdura. Nell’elenco troviamo:

    Cereali in particolare quelli integrali, oltre al grano il riso, avena, orzo, farro, segale, grano saraceno, miglio.
    Olio extravergine d’oliva (per il contenuto di grassi monoinsaturi, vitamina E e polifenoli)
    Cipolle
    Mele
    Semi di lino e di zucca
    Mandorle e noci
    Frutti di bosco
    Curcuma e zenzero
    Ananas

All’interno di un’alimentazione equilibrata può essere utile prediligere alimenti antinfiammatori, con un indice d’infiammazione basso, in particolare per le persone a cui sono state già diagnosticate o quando c’è il rischio di sviluppare patologie autoimmuni, malattie cardiovascolari e malattie degenerative.

Sebbene l’indice infiammatorio degli alimenti possa rappresentare per molti una novità, la teoria non aggiunge nulla alle conoscenze già note.
L’invito è sempre quello di consumare più cereali, meglio se integrali, prediligere l’olio d’oliva extravergine, mangiare cinque porzioni di frutta e verdura fresca al giorno, l’utilità del consumo, anche se moderato, di frutta secca (mandorle, noci) e la limitazione di tutti gli alimenti industriali elaborati ricchi di sale, grassi saturi, zucchero, additivi ed esaltatori di sapidità.

(*) Nota:

Ha destato molta perplessità l’inserimento da parte dei ricercatori  nella lista degli alimenti infiammatori delle patate, che va ricordato però hanno un alto indice glicemico (come zucchero e farina 00).
È nota la relazione tra un alimentazione ad alto indice glicemico e alto indice infiammatorio, anche se l’indice glicemico delle patate varia per esempio in quelle al forno da 56 a 111, se bollite da 56 a 101.

È necessario tenere presente che le patate richiamano anche una certa quantità di grassi come condimento nella cucina tradizionale e anche frequenza di consumo e quantità.
I ricercatori non invitano a eliminare, ma a ridurre il consumo.
Non bisogna concentrarsi su un alimento specifico ma sull’alimentazione in generale, che oggi è particolarmente ricca di alimenti già pronti. Ridurre anche solo in parte quelli sarebbe un ottimo traguardo, al di là della patata.

venerdì 16 giugno 2017

Tumori, scoperto l'interruttore del cancro

Tratto da La Repubblica Salute (articolo originale)

LA RIVISTA Science pubblica un lavoro che potrebbe aprire nuove strade alla lotta al cancro.
Prima firma è quella  di Chiara Di Malta, ricercatrice nel team di un big della nostra ricerca, Andrea Ballabio direttore dell'Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli e docente di Genetica Medica all'Università Federico II di Napoli. Oltre che dalla Fondazione Telethon, il lavoro è stato finanziato anche dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc).

«Questa è una storia che parte da lontano – spiega Ballabio – e in particolare dal nostro “storico” interesse per quegli organelli cellulari chiamati lisosomi che sono coinvolti in un ampio gruppo di malattie genetiche rare, quelle da accumulo lisosomiale appunto. In queste gravi patologie, a causa di un difetto genetico, i lisosomi non svolgono a dovere il loro compito, ovvero quello di neutralizzare, grazie al loro ampio corredo di enzimi, le sostanze di scarto: il risultato è che queste sostanze si accumulano nelle cellule, danneggiandole irreversibilmente.
Studiando il funzionamento dei lisosomi abbiamo però scoperto che questi organelli non sono dei semplici “spazzini”, ma dei fini regolatori del nostro metabolismo».

Nel 2009, infatti, il direttore del Tigem e il suo team hanno descritto per la prima volta – ancora sulle pagine di Science – un gene chiamato TFEB che è in grado di regolare da solo l’attività di molti altri geni coinvolti sia nella produzione sia nel funzionamento dei lisosomi.
«Ci siamo resi conto da subito – continua Ballabio – di essere di fronte a un meccanismo di “pulizia” delle nostre cellule assolutamente nuovo e finemente regolato, potenzialmente sfruttabile per evitare l'accumulo di sostanze tossiche tipico di svariate malattie degenerative, di origine genetica ma non solo».
Gli studi successivi condotti al Tigem hanno infatti confermato che i lisosomi funzionano come veri e propri termovalorizzatori, degradando le molecole già utilizzate e ormai inutili per ricavarne energia.
Questo è particolarmente utile in assenza di nutrienti e nella risposta all’esercizio fisico prolungato: quando ci sono poche risorse a disposizione e l'organismo quindi sfrutta le proprie riserve endogene di energia. In presenza di cibo, invece, questa via metabolica viene normalmente silenziata.
Il nuovo studio dimostra che se questo meccanismo si inceppa è in grado di promuovere la crescita tumorale.
I ricercatori del Tigem hanno infatti dimostrato come diversi tipi di cellule tumorali (melanoma, tumore del rene e del pancreas) siano in grado di replicarsi in modo indiscriminato proprio perché questo sistema di regolazione “anti-spreco” è sempre attivo.
Studi preliminari dei ricercatori del Tigem dimostrano che l’inibizione di questo meccanismo blocca la crescita tumorale, suggerendo quindi una nuova strategia per la terapia dei tumori.

«Questo studio, pubblicato su Science, una delle più importanti riviste scientifiche internazionali, conferma ancora una volta quanto le malattie genetiche rare siano un eccezionale banco di prova per la scoperta di meccanismi biologici fondamentali e la messa a punto di strategie terapeutiche innovative come la terapia genica - commenta il direttore generale della Fondazione Telethon Francesca Pasinelli – A titolo di esempio, basti ricordare come le statine, farmaci comunemente usati per abbassare i livelli di colesterolo, siano stati sviluppati a partire dallo studio di una condizione rara, l’ipercolesterolemia familiare, in cui l’accumulo di questa sostanza dipende da un difetto genetico ereditario.
Sostenere e promuovere ricerca di qualità sulle malattie genetiche rare è quindi importante non solo per chi è direttamente colpito da queste gravi patologie, ma anche per la collettività intera».

“L’unione delle forze di due tra le più importanti organizzazioni non profit a supporto della ricerca in Italia ha prodotto uno straordinario risultato scientifico – aggiunge Niccolò Contucci, Direttore Generale dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro - Siamo orgogliosi di avere finanziato insieme a Telethon questo importante lavoro che costruisce un ponte tra la conoscenza di base e lo sviluppo di nuove terapie per la cura del cancro.
Una scoperta che merita la pubblicazione sull’autorevole rivista Science e contribuisce a posizionare la ricerca italiana indipendente tra le eccellenze del panorama scientifico internazionale”

venerdì 24 febbraio 2017

[Esplora il significato del termine: Lavoratori esposti all’amianto: si può prevenire il mesotelioma coi carciofi?] Lavoratori esposti all’amianto: si può prevenire il mesotelioma coi carciofi?


Fonte: Corriere Salute

Prevenire uno dei tumori più temibili e ancora letali, il mesotelioma, con i carciofi.
L’idea, tutta italiana, appare azzardata ma ha già dato buoni risultati sia negli studi di laboratorio che sulle cavie. Tanto da far ottenere ai ricercatori il via libera delle autorità per la sperimentazione sulle persone.
«Gli studi preclinici, condotti all’Istituto Tumori Regina Elena di Roma sia su modelli cellulari di mesotelioma che su topi, hanno dimostrato che gli estratti di carciofo posseggono attività antitumorali - spiega Giovanni Blandino, responsabile del Laboratorio di Oncogenomica Traslazionale del Regina Elena, che ha lavorato in collaborazione con Sabrina Strano, ricercatrice dell’Area di Medicina Molecolare dello stesso Istituto -.
Se le nostre intuizioni venissero confermate anche sull’uomo apriremmo la strada a una rivoluzione».
Il trial clinico è stato presentato oggi a Roma, durante l’International Workshop on metabolism, diet and chronic disease, un appuntamento per fare il punto sulle evidenze scientifiche riguardanti stili di vita e neoplasie.

Mesotelioma: ogni anno 2mila casi in Italia

Il mesotelioma ogni anno colpisce oltre duemila persone solo in Italia, ma la sua incidenza è in continua crescita ed è atteso un picco di malati entro il 2020.
È il tumore polmonare direttamente collegato all’esposizione da amianto, materiale bandito dall’Italia da oltre vent’anni ma ancora diffusissimo (nell’ambiente ne restano circa cinque quintali per cittadino, 32 milioni di tonnellate) e al centro del processo contro i dirigenti dell’Eternit (dopo la storica condanna d’appello del 2013 si è ora in attesa della Cassazione). È una fra le forme di cancro tutt’oggi letali, perché una volta diagnosticato non lascia scampo e la sopravvivenza dei pazienti nella stragrande maggioranza de casi purtroppo non supera i 12 mesi.
Ed è subdolo, perché colpisce a distanza di anni: possono passarne perfino 40-45 tra l’inizio dell’esposizione all’amianto e il momento in cui si manifesta la malattia.
Colpa delle fibre di amianto inalate tanti anni prima, che poi fanno ammalare soprattutto i lavoratori esposti: quelli delle fabbriche di cemento-amianto e dei cantieri navali, ma è stato molto usato anche per costruire case, scuole, ospedali.

Come funziona l’estratto di carciofo

A fronte di un quadro così fosco, le speranze riposte nell’estratto di carciofo crescono in modo esponenziale: «È appena partita la sperimentazione di fase due condotta su lavoratori canadesi esposti all’asbesto - spiega Paola Muti, ricercatrice italiana che lavora in Canada presso il Dipartimento di Oncologia della McMaster University, che sta lavorando insieme ai colleghi romani -.
L’obiettivo è dimostrare che l’estratto, realizzato in laboratorio semplicemente prendendo le foglie del carciofo ed “elaborandole”, impedisce che le cellule esposte ad amianto esprimano a pieno il potenziale cancerogeno, prolifichino e diano luogo a effettivamente un tumore.
I partecipanti, ad alto rischio di sviluppare il mesotelioma e già sofferenti di altre patologie benigne dovute all’amianto, vengono trattati con quattro compresse di estratti di carciofo al giorno, del tutto prive di effetti collaterali.
E sono monitorati con cadenza trimestrale, attraverso biomarcatori sierici (piccoli RNA non-codificanti e una proteina secreta dal mesotelio, la mesotelina).
In particolare - continua Muti - la mesotelina è prodotta dal mesotelio, esposto a infiammazione, ed è molto aumentata nel caso di esposizione all’asbesto e nel mesotelioma.
L’ipotesi di questo trial è quella che il carciofo sia in grado di ridurre il livello di mesotelina sierica.
In sostanza, si tratta di usare la mesotelina come biomarcatore di efficacia anti-cancerogena dell’estratto vegetale».
Se il trial clinico confermerà l’ipotesi si prevede un successivo trial di fase tre, su un numero molto ampio di persone esposte all’asbesto e della durata di diversi anni.
«Per adesso le premesse derivanti dai dati sperimentali sono ottime, la speranza è che vengano confermate nell’uomo» concludono i ricercatori.

sabato 21 gennaio 2017

Patrizia, l’oncologa italiana che conquista Parigi in una notte con il libro che racconta «come si uccide il cancro»

Fonte: Corriere della Sera (27ma ora)

Un libro appena uscito sta avendo molto successo in Francia, è scritto da una scienziata italiana, la professoressa Patrizia Paterlini-Bréchot dell’università Paris-Descartes.
Si intitola "Tuer le cancer", "uccidere il cancro" è edito da Stock, ed è un viaggio appassionante nella battaglia contro i tumori e nella vita personale di Paterlini-Bréchot.
Le due avventure in buona parte coincidono. Nata a Reggio Emilia, si laurea a Modena vincendo il premio per la migliore tesi di medicina del 1978.
Segue i corsi dell’«Infallibile Maestro», come lei chiama nel libro il professor Mario Coppo, e un giorno la giovane dottoressa Paterlini incontra il suo «paziente zero».

Un uomo destinato a morire, in pochi giorni, di cancro al pancreas. Combattuta tra il dirgli la verità o meno, cerca in ogni modo di aiutarlo e di alleviare le sue sofferenze ma l’ultimo sguardo durante la crisi finale è per lei: «Occhi immensi, spalancati, che meglio di qualsiasi parola esprimono il suo disprezzo e mi accusano: “Mi hai tradita!”».
Patrizia Paterlini decide che dedicherà la sua vita a combattere il cancro. Va a Parigi per uno stage di biologia molecolare, entra nella squadra del professor Christian Bréchot e se ne innamora, ricambiata.
Si trasferisce definitivamente in Francia e indirizza le sue ricerche verso una scoperta straordinaria, che potrebbe un giorno valerle il premio Nobel.
Da circa un anno e mezzo è a disposizione dei pazienti il test «Iset» (Isolation by Size of Epithelial Tumor Cells) per l’individuazione delle cellule tumorali nel sangue.

«Con un semplice prelievo si può scoprire se nell’organismo si sta sviluppando un tumore, anche se è a uno stadio talmente iniziale che non ha ancora generato una massa rilevabile da una Tac o una radiografia», spiega l’oncologa.
Il guadagno di tempo è evidente, e il tempo è tutto.
Con questo sistema il professor Paul Hofman a Nizza ha scoperto cellule tumorali nel sangue di cinque pazienti a rischio, fumatori affetti da broncopatia, ben prima che il cancro al polmone fosse visibile.
Il test costa 486 euro, non ancora rimborsati dall’assistenza sanitaria francese, ma il punto è che «uccidere il cancro» prima che prenda forza è un traguardo a portata di mano.
Sarebbe arrivata a questa scoperta se fosse rimasta in Italia? «All’epoca gli studi di biologia molecolare erano più avanzati in Francia.
Ma credo che anche la mia formazione italiana abbia contato molto».
Quale sarà il passaggio successivo? «Con la mia équipe stiamo cercando di rendere il test ancora più preciso.
Oggi indica se c’è un tumore in corso, e altri esami dicono poi in quale organo.
In futuro il test potrebbe dirci subito qual è l’organo interessato».

Risorse

Sito web ISET

venerdì 4 novembre 2016

Così il fumo fa impazzire le cellule e causa i tumori

Fonte: La Repubblica - Salute

Il fumo causa il cancro. Ma come? Per la prima volta uno studio su Science ha cercato di afferrare l’effetto del tabacco sulle cellule. “Fumare un pacchetto al giorno per un anno - spiega Ludmil Alexandrov del Los Alamos National Laboratory americano, coordinatore della ricerca – provoca in ogni singola cellula dei polmoni circa 150 mutazioni genetiche.
E le alterazioni del Dna, come è noto, sono spesso l’anticamera dell’”impazzimento” delle cellule.

Le sostanze.
Nel tabacco sono state identificate almeno 70 sostanze cosiddette “mutagene”.
La loro azione, cioè, è quella di “rimescolare” le lettere con cui è scritta una sequenza di Dna.
Alcune di queste mutazioni sono ricorrenti, e i ricercatori americane le hanno ricercate con pazienza certosina (e computer potentissimi) nei campioni di tumore di oltre 5 mila pazienti.
Alcuni di loro fumavano, altri no. Mettendo a confronto i “rimescolamenti” più ricorrenti nei primi con quelli più ricorrenti nei secondi hanno cercato di ricostruire la catena di eventi che trasforma una cellula sana in una malata negli organi di chi è dipendente dal tabacco.
Questo genere di studi, nato una ventina d’anni fa, si chiama “archeologia del cancro” ed è uno dei più complessi dell’oncologia. Conosciamo infatti molto dei tumori che riusciamo a vedere. Ma poco o nulla delle cellule “primigenie” che innescano la malattia.

I tumori.
Il fumo, causa di quasi un tumore su quattro, è in questo senso un alleato prezioso.
I suoi effetti, hanno ricostruito i ricercatori guidati da Alexandrov, si fanno sentire su almeno 17 tipi di tumori diversi.
Attraverso un primo meccanismo, il tabacco danneggia i tessuti che raggiunge direttamente (polmoni e cavo orale).
Un secondo meccanismo, più subdolo e difficile da capire, agisce invece sugli organi lontani, dalla vescica al fegato.

La bocca.
L’effetto del fumo su bocca, gola e polmoni è diretto. Gli scienziati americani lo descrivono come “una roulette russa”.
Le sostanze mutagene del fumo infatti alterano il Dna delle cellule con cui vengono a contatto seguendo un pattern tipico.
Solo una piccolissima percentuale di queste mutazioni si trasformerà in tumore.
Ma più sigarette si fumano, più le cellule alterate sono numerose (e quindi le probabilità di ammalarsi alte).

Un pacchetto.
Se un pacchetto di sigarette al giorno per un anno provoca 150 mutazioni in ciascuna cellula dei polmoni, per la laringe questo valore è di 97, per la faringe 39 e per la bocca 23.
Il tipo di mutazione osservato in questi tessuti è analogo a quello che è stato osservato nelle cellule in vitro mettendole a contatto con il benzopirene, una delle sostanze chimiche presenti nel fumo di sigaretta.  

L'orologio interno.
Nei tessuti lontani, si è visto, il cancro nasce spesso per un secondo tipo di effetto. Ogni cellula infatti è dotata di una sorta di orologio interno, che la fa invecchiare man mano che il tempo passa.
Nei fumatori, per un fenomeno ancora tutto da decodificare con chiarezza, l’orologio inizia a ticchettare con più rapidità.
I tipi di “rimescolamento” delle lettere del Dna sono diverse rispetto a quelle osservati in bocca, gola e polmoni.
E i ricercatori le hanno rintracciate solo grazie a un software in grado di separare le varie mutazioni del Dna come se si trattasse di separare le diverse conversazioni di una stanza affollata.
La stessa tecnica verrà ora usata per comprendere gli effetti di altri fattori di rischio come alcol, obesità e inquinamento, sulla nascita dei tumori.

domenica 23 agosto 2015

Tumori estrogeno-dipendenti

(Dal sito My personal trainer)

Si definiscono Estrogeno-Dipendenti tutte quelle forme tumorali la cui insorgenza e crescita è promossa o comunque favorita dalla presenza di ormoni estrogeni.

In particolare, tra i tumori estrogeno dipendenti si ricordano alcune forme di:

* cancro al seno
* carcinoma dell'endometrio uterino (lo strato più superficiale dell'utero)
* cancro all'ovaio

L'ormono-dipendenza viene stabilita cercando la presenza di specifici recettori ormonali nelle cellule tumorali asportate.
Buona parte ma non tutti i carcinomi mammari, per esempio, risultano dipendenti dagli estrogeni per la proliferazione delle cellule cancerose.
Inoltre, lo stato ormonale di un tumore può variare con il passare del tempo: ad esempio, frequentemente i tumori del seno in fase iniziale sono tumori ormono-dipendenti a differenza dei tumori mammari in fase avanzata che non lo sono o lo sono meno.

L'importante ruolo degli ormoni estrogeni nella crescita e nell'estensione di queste forme tumorali, ha spinto i ricercatori a sperimentare l'efficacia antitumorale di farmaci in grado di ridurre la sintesi di estrogeni e/o bloccarne l'azione biologica, ottenendo risultati positivi soprattutto nel trattamento del cancro al seno.

Tra questi farmaci ricordiamo:

* Tamoxifene (es. Nolvadex, Tamoxifene AUR, Nomafen): impedisce, attraverso un meccanismo di competizione biologica, il legame tra gli estrogeni ed il loro recettore; viene quindi utilizzato nel trattamento del tumore al seno nelle donne in età fertile, nelle quali i suddetti ormoni vengono prodotti principalmente dall'ovaio;
* Exemestane (es. Aromasin), Anastrozolo (Arimidex): bloccando l'attività dell'aromatasi (un enzima che converte gli androgeni in estrogeni), sono indicati per trattare le forme tumorali estrogeno-dipendenti nelle donne in post-menopausa, nelle quali la sintesi estrogenica ovarica è minima e gli estrogeni vengono prodotti in minime quantità in periferia, soprattutto nel tessuto adiposo (le donne obese corrono, per esempio, un maggior rischio di sviluppare cancro all'endometrio e alla mammella).

Allo stesso tempo, l'importante ruolo degli ormoni estrogeni nella crescita e nell'estensione di queste forme tumorali, rende ragione della necessità - in caso di forma tumorale estrogeno-dipendente già manifesta o predisposizione familiare/genetica ad essa - di evitare l'assunzione a lungo termine di farmaci o preparati che possono esaltare la sintesi o l'attività degli ormoni estrogeni:

* pillola anticoncezionale combinata, anello vaginale, cerotto anticoncezionale
* terapia ormonale sostitutiva in menopausa
* farmaci androgeni, steroidi anabolizzanti
* prudenza nell'utilizzo di alcuni preparati fitoterapici contenenti fitoestrogeni, come soia, cimicifuga e trifoglio rosso, o di oli essenziali contenenti composti ad attività estrogenica (es. olio essenziale di finocchio, anice, salvia o erba moscatella)

Anche la menopausa tardiva, specie se associata a pubertà precoce, rappresenta un importante fattore di rischio per lo sviluppo di forme tumorali estrogeno-dipendenti, soprattutto per il cancro al seno, poiché maggiore è il tempo di esposizione dell'organismo agli estrogeni endogeni.
Da segnalare, come l'asportazione delle ovaie e delle tube di Fallopio a donne ancora fertili possa arrestare o rallentare la crescita di tumori al seno e alle ovaie che hanno bisogno di estrogeni per crescere, sebbene si tratti ovviamente di una scelta terapeutica non così immediata.

Per quanto riguarda il cancro del colon ed il cancro della prostata, gli ormoni estrogeni sono talvolta utilizzati in terapia come coadiuvante per favorire la regressione del tumore o aumentare la sopravvivenza del paziente, in quanto sembrano sortire un effetto positivo in tal senso.

Quelle illustrate nell'articolo sono naturalmente informazioni di carattere generale, spetta infatti al medico stabilire la natura estrogeno-dipendente di una forma tumorale e la terapia medica più idonea.
Ad esempio, prove sperimentali hanno evidenziato come la somministrazione di soli estrogeni in donne isterectomizzate (a cui era stato in precedenza asportato chirurgicamente l'utero) non ha determinato alcun aumento di incidenza del cancro al seno, o ne abbia addirittura prevenuto l'insorgenza.
Anche nelle donne con utero intatto la terapia ormonale sostitutiva con soli estrogeni sembra non aumentare l'incidenza di neoplasie alla mammella; purtroppo tende ad elevare il rischio di neoplasie dell'endometrio, per cui in genere si preferisce associare un progestinico (naturale o sintetico), sebbene la combinazione dei due aumenti il rischio di cancro alla mammella.

Ancora, la terapia ormonale sostitutiva sembra ridurre in maniera significativa l'incidenza di cancro al colon, mentre l'utilizzo della pillola anticoncezionale combinata sembra rappresentare un fattore protettivo nei confronti del cancro all'ovaio.

In generale, il rapporto tra terapie ormonali e rischio di forme tumorali estrogeno-dipendenti rimane un argomento piuttosto controverso, sul quale l'ultimo a pronunciarsi non può che essere il medico che ha in cura la paziente.

Cancro e ormoni

Alcuni ormoni sono correlati allo sviluppo di neoplasie, promuovendo la proliferazione cellulare.
I tumori la cui nascita è maggiormente influenzata dagli ormoni sono quelli legati al sesso come il cancro della mammella, dell'endometrio, della prostata, dell'ovaio e del testicolo, oltre ai tumori della tiroide e delle ossa.

I livelli ormonali di un individuo sono in gran parte determinati geneticamente, quindi questo potrebbe spiegare almeno in parte la presenza di alcuni tipi di neoplasie che si verificano spesso all'interno di alcuni gruppi familiari che non presentano geni particolari.
Ad esempio, le figlie di donne che hanno avuto un cancro alla mammella, hanno livelli significativamente più elevati di estrogeni e progesterone.
Questi elevati livelli di ormoni possono spiegare perché queste donne hanno un rischio più elevato di neoplasie mammarie.
Allo stesso modo, gli uomini di origine africana hanno livelli significativamente più elevati di testosterone rispetto agli uomini di origine europea e di conseguenza presentano un'incidenza di tumore alla prostata più elevata.
Gli uomini di origine asiatica, con i più bassi livelli di testosterone, godono della minore incidenza.

Tuttavia, i fattori non genetici sono anche rilevanti: le persone obese hanno più alti livelli di alcuni ormoni associati con il cancro e quindi una maggiore incidenza di tali tumori.
Le donne che assumono terapia ormonale sostitutiva hanno un rischio maggiore di sviluppare tumori associati a questi ormoni.
Alcuni trattamenti e approcci di prevenzione prevedono la riduzione artificiale dei livelli di tali ormoni, al fine di evitare i tumori ormone-sensibili.

giovedì 9 luglio 2015

Nuovi test per identificare il tumore alla prostata, onde sonore e un super esame del Psa

Il problema del Psa è che aumenta nel tumore ma anche per infiammazioni e la più comune ipertrofia della prostata.
Per questo si stanno usando anche altri test. I più utilizzati sono il Pca3 e il proPsa.
Il primo è un test genetico su urine dopo massaggio prostatico. Indici elevati (+35%) consigliano di ricorrere alla biopsia.

Il proPsa si esegue sul sangue dove si misura una frazione della molecola del Psa che, raffrontato al Psa totale e libero, consente di calcolare l'indice di salute prostatica, il Phi, acronimo inglese di Prostate Health Index.
Percentuali tra 0 e 22 escluderebbero il tumore, quelle >di 45 indicano un'alta probabilità di tumore, e una zona grigia, compresa tra 23 e 44 in cui decide l'urologo.

Tumore alla prostata, con una nuova tecnica biopsie a colpo sicuro

(Tratto dal sito Repubblica-Salute. Vedi articolo originale)

Il tumore della prostata è in aumento ma la buona notizia è che la mortalità è diminuita del 36%.
La sopravvivenza, negli ultimi 20 anni, è addirittura quintuplicata grazie ad una diagnosi sempre più precoce, alla radicalità delle tecniche chirurgiche, alla radioterapia, ma soprattutto ai progressi della terapia per le forme metastatizzate.
In pratica, a oggi, il tumore della prostata potrebbe essere considerato proprio come una malattia cronica al pari del diabete, o dell'ipertensione. Infatti, anche per quei pazienti affetti da carcinoma in fase avanzata e resistente alla terapia ormonale, negli ultimi 5 anni si è registrata una disponibilità di farmaci veramente innovativi, in grado di migliorare la sopravvivenza, anche dopo l'insuccesso della chemioterapia.
Il primo è l'abiraterone acetato, che inibisce gli ormoni in ogni sede di produzione, in particolare all'interno del tumore stesso, bloccando la produzione autonoma di testosterone da parte delle cellule prostatiche e togliendo loro lo stimolo ormonale necessario alla sua crescita.
Più recente è l'enzalutamide, che agisce bloccando i recettori cui il testosterone aderisce per essere trasportato all'interno della cellula fino al nucleo e al Dna, impedendo la crescita tumorale.

Il farmaco. Infine un radiofarmaco indicato solo per le metastasi ossee e quindi il dolore; si tratta del Radium 223 capace di incorporarsi nella sede delle metastasi scheletriche e uccidere le cellule tumorali con le radiazioni alfa, riducendo al minimo gli effetti collaterali.
Gli studi clinici eseguiti hanno dimostrato aumento della sopravvivenza e miglioramento della qualità della vita.
A oggi però il problema più importante è l'incertezza della diagnosi.
La neoplasia della prostata, interessa 36 mila nuovi soggetti all'anno a fronte però di 100 mila biopsie effettuate; in pratica, tra il 65 e 70% dei casi la biopsia con scopre alcun tumore, nonostante il Psa sia più alto della norma.
Se da una parte tutto questo provoca euforia e tranquillità iniziale nel paziente, dopo qualche mese ne aumenta invece le preoccupazioni perché, spesso, il Psa continua ad innalzarsi.
Si fa strada così il sospetto che il tumore possa in realtà esserci ma in una parte della ghiandola dove non è stato infilato l'ago.
Infatti, tenendo presente che sono ritenuti normali valori inferiori o uguali a 2.5 ng/ml per soggetti di 50-65 e inferiori o uguali a 4 ng/ml dai 65 anni in poi, fino ad oggi, la stragrande maggioranza delle biopsie viene fatta "at random", cioè senza un bersaglio preciso, dato che nel 60-70% dei casi è solo il Psa a suggerire l'esecuzione della biopsia in assenza di segni clinici o ecografici.

Il test del Psa. In pratica, una conferma al fatto che il test del Psa ha dei limiti proprio per la scarsa specificità.
E da qui la necessità di ricercare altri segnali più affidabili dal punto di vista della diagnosi, ricorrendo ai nuovi marcatori che, in presenza di Psa elevato, dovrebbero consentire di limitare proprio il numero di biopsie.
Utili anche nuove indagini strumentali che indichino dove fare la biopsia, unica a fornire la certezza della diagnosi.

Fino a 36 prelievi. A oggi, in moltissimi casi, sotto guida ecografica, si eseguono 18, 24 o addirittura 36 prelievi, anche per due o tre volte, con la speranza di centrare le cellule tumorali.
Per evitare però questi prelievi multipli, con il pericolo di infezioni e ritenzioni di urine, un ruolo sempre più importante viene riconosciuto alla risonanza magnetica nucleare, associata alla ecografia, e più recentemente alla risonanza magnetica multiparametrica.
Il primo sistema, detto sistema BiopSee, unisce all'efficienza delle immagini ecografiche real-time l'efficacia delle immagini di Risonanza Magnetica Nucleare e consente di eseguire biopsie di precisione mirate alle lesioni sospette.

La risonanza. La risonanza magnetica (RM) Multiparametrica rispetto alla RM convenzionale, rappresenta invece un importante elemento per pianificare il percorso diagnostico dei pazienti con sospetto tumore alla prostata, fornendo immagini che fanno individuare anche piccole modificazioni strutturali, informazioni sulla ricca cellularità e vascolarizzazione del tumore.
La novità delle nuove apparecchiature è una bobina Siemens con 60 canali, che migliora la qualità dell'immagine e quindi facilita la individuazione della lesione anche di dimensioni millimetriche, compresi tra 0,6 e 6 mm, e risulta confortevole in quanto non utilizza la bobina endorettale.
Questo esame, ha un valore predittivo negativo intorno al 90% per escludere la presenza di tumore prostatico: quindi se la RM multiparametrica è negativa non serve fare biopsia.
Questo esame è già consigliato da molte assicurazioni della Gran Bretagna e inizia ad affacciarsi nelle linee guida per la sua potenzialità di risparmiare costi della sanità e migliorare la diagnosi risparmiando sofferenze al paziente.

La diagnosi. Ma una volta diagnosticati i tumori della prostata non sono tutti uguali: in tanti soggetti crescono lentamente, in altri molto più velocemente.
Ne consegue quindi come sia importante valutare nella maniera più accurata possibile l'aggressività del tumore per determinare la prognosi e la strategia di trattamento più appropriato, limitando le terapia inutili.

giovedì 5 febbraio 2015

Un attacco al 'motore' del cancro alla prostata avanzato, in Italia un nuovo farmaco

Riferimenti: Articolo tratto dal sito adnkronos

Un'arma per mirare dritto al 'motore' che fa crescere il cancro alla prostata, il recettore del testosterone. Dopo il fallimento della chemioterapia per i pazienti con carcinoma avanzato resistente alla castrazione è oggi disponibile in Italia un nuovo farmaco: enzalutamide, un agente ormonale di ultima generazione che si assume per via orale. Un'opzione in più 'nell'armadietto' degli oncologi per trattare, migliorando sopravvivenza e qualità di vita, i malati più difficili, rimasti a lungo "praticamente orfani di cure efficaci", sottolineano gli esperti oggi durante un incontro promosso a Milano da Astellas Pharma che ha messo a punto il farmaco, dispensato dal Servizio sanitario in fascia 'H', dietro ricetta non rinnovabile dei Centri ospedalieri o degli specialisti.

La nuova terapia aggiunge un tassello alle strategie disponibili contro il cancro della prostata, secondo per diffusione nella popolazione maschile europea dopo i tumori cutanei: rappresenta il 20% di tutti i tumori tra gli over 50 e la fascia più colpita è quella over 70, anche se nell'ultimo decennio sono in aumento i casi registrati tra i 60 e i 70 anni. Complessivamente il cancro alla prostata viaggia in Italia al ritmo di circa 42 mila nuove diagnosi l'anno e causa 8 mila morti. E se, con la diagnosi precoce e il contributo delle nuove tecnologie, fa in generale meno paura di un tempo (la sopravvivenza è di circa l'88% a 5 anni dalla diagnosi), è anche vero che oltre il 40% degli uomini colpiti sviluppa metastasi e, di questi, un numero elevato diventa resistente alla castrazione, ossia al trattamento di deprivazione androgenica.

Non mancano le diagnosi tardive: "Circa il 10-20% dei casi viene 'stanato' in fase già avanzata - spiega Paolo Marchetti, professore ordinario di Oncologia all'università Sapienza di Roma e direttore dell'Unità operativa complessa di oncologia medica dell'Azienda ospedaliera Sant'Andrea della Capitale - Questo dipende in parte dalla natura del tumore, le cui alterazioni nella parte più esterna della ghiandola prostatica non danno segni della patologia se non quando il tumore è molto cresciuto, in parte dalla carenza di indagini diagnostiche".

Oggi il paziente si trova davanti diverse strade, da modulare in base alle caratteristiche e al grado di aggressività della malattia: chirurgia, radioterapia, ablazione focale, ormonoterapia, chemio. "La terapia ormonale, uno dei cardini del trattamento farmacologico - spiega Francesco Montorsi, professore ordinario di Urologia all'università Vita-Salute San Raffaele di Milano - fa leva sul ruolo che gli androgeni, in particolare il testosterone, giocano nella crescita, lo sviluppo e la proliferazione del tumore prostatico".

Enzalutamide inibisce in modo selettivo il recettore degli androgeni (testosterone), bloccandolo in maniera duratura nel tempo, ripristinando un controllo sulla cellula tumorale prostatica e inducendone in alcuni casi la morte. Il recettore degli androgeni è "il principale oncogene responsabile dell'aggressività della neoplasia - chiarisce Alfredo Berruti, professore associato di Oncologia medica all'università degli Studi di Brescia, Ao Spedali Civili - Il nuovo farmaco azzera la sua funzione stimolante agendo a più livelli: inibisce il legame recettore-testosterone, inibisce la traslocazione del segnale dal citoplasma all'interno del nucleo delle cellule e, da ultimo, inibisce la stimolazione del Dna a sintetizzare le proteine responsabili della crescita tumorale".

Nello studio Affirm, enzalutamide si è mostrato in grado di contrastare la crescita del tumore e delle metastasi, migliorando in maniera la sopravvivenza globale (4,8 mesi) rispetto al placebo (18,4 vs 13,6 mesi), con miglioramento della sopravvivenza libera da progressione radiografica, in pazienti che si dimostravano non più responsivi all'ormonoterapia tradizionale e alla chemioterapia. "Siamo un'azienda che investe il 17% del fatturato, quindi oltre un miliardo di euro l'anno, in ricerca - sottolinea Ermanno Buratti, direttore generale Astellas Pharma - enzalutamide, insieme ad altri prodotti, è il risultato di questo sforzo enorme".

sabato 3 gennaio 2015

L'assunzione di latte intero è associato alla mortalità specifica da cancro alla prostata

Studi precedenti hanno stabilito che più elevata è l’assunzione di latte e maggiore è l’incidenza di cancro della prostata (PCa), ma sono disponibili poche informazioni che riguardano i tipi di latte e la relazione tra assunzione di latte e rischio di PCa mortale.
Abbiamo studiato l’associazione tra l’assunzione di prodotti lattiero-caseari e l’incidenza e la sopravvivenza al PCa durante un follow-up di 28 anni. Abbiamo condotto uno studio di coorte nel Physicians’ Health Study (n = 21,660) ed un’analisi della sopravvivenza tra i casi incidenti di PCa ((n = 2806).
Le informazioni sul consumo di prodotti lattiero-caseari sono state raccolte all’inizio.
I casi di PCa ed i decessi (n = 305) sono stati confermati durante il follow-up.
L’assunzione di prodotti lattiero-caseari interi è stata associata con un aumento dell’incidenza del PCa [HR = 1.12 (95% CI: 0.93, 1.35); >2.5 porzioni/d  vs. ?0.5 porzioni/d].
L’assunzione di latte scremato o con basso contenuto di grassi ha mostrato un’associazione positiva con il rischio di forme cancerose di grado inferiore, di stadio precoce e rilevabili con lo screening, mentre il consumo di latte intero è stato associato solo con forme di PCa letali [HR = 1.49 (95% CI: 0.97, 2.28); ?237 mL/d (1 dose/d) vs. consumo raro].
Nell’analisi della sopravvivenza il consumo di latte intero resta associato al rischio di progressione verso una forma letale dopo la diagnosi [HR = 2.17 (95% CI: 1.34, 3.51)].
In questa coorte prospettica il maggior consumo di latte scremato o a basso contenuto di grassi è stato associato con una maggiore incidenza di PCa non aggressivo.
Ciò che ha maggiore importanza è che solo il latte intero presenta una consistente associazione con una maggiore incidenza di forme letali di PCa nell’intera coorte e una più elevata mortalità specifica per il PCa tra i casi.
Queste osservazioni portano ulteriormente ad ipotizzare il ruolo potenziale dei prodotti lattiero-caseari nello sviluppo e nella prognosi del PCa.

Studio scientifico

Whole milk intake is associated with prostate cancer-specific mortality among U.S. male physicians. Song Y, Chavarro JE, Cao Y, Qiu W, Mucci L, Sesso HD, Stampfer MJ, Giovannucci E, Pollak M, Liu S, Ma J., J Nutr. 2013 Feb;14 3(2):189-96.

sabato 29 dicembre 2012

Un ormone “stonato” alimenta il tumore

Tratto da "Salute 24" (vedi articolo originale)

Tumori e metastasi, colpa di una danza stonata.
Quella di un meccanismo utile allo sviluppo embrionale, che per un “cortocircuito” va in tilt e accende il gene della staminalità tumorale.
Grazie a gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Padova, guidati da Stefano Piccolo – Piccolo ha appena ricevuto il premio scientifico FIRC “Guido Venosta” - è più chiaro il rapporto tra l'eccesso dell’ormone Wnt, normalmente coinvolto nella costruzione degli organi e nei processi rigenerativi, e il gene TAZ che “invia” staminali a supporto del tumore. Lo studio è pubblicato su Cell.


In condizioni normali lo sviluppo di un nuovo organo avviene solo durante lo sviluppo embrionale, e solo pochi organi, come il fegato, sono capaci di rigenerarsi dopo aver subito un danno.
Il cancro è un "organo" che ha scoperto il segreto di come riprodurre se stesso, ed è grazie alle sue cellule staminali che si possono sviluppare le metastasi, con ricadute dopo la chemioterapia.


Le cellule tumorali da sole però non riuscirebbero a fare molto e anche il più aggressivo dei tumori ha bisogno di ricevere parecchi segnali dall’ambiente che lo circonda.
Uno di questi segnali viene da un ormone che si chiama Wnt: un fattore attivo durante lo sviluppo embrionale e nei normali processi rigenerativi.
Lo studio di Stefano Piccolo, che porta la firma di Luca Azzolin e Michelangelo Cordenonsi, spiega come l'eccesso di Wnt attivi nella cellula un gene maestro della staminalità tumorale, chiamato TAZ.


TAZ era già noto ai ricercatori: è un gene che durante lo sviluppo di un organo controlla le sue dimensioni e animali che per difetti genetici nascono con troppo TAZ sviluppano organi giganteschi.
Lo stesso meccanismo viziato che può portare al processo di crescita di un tumore e la proliferazione delle metastasi, versione stonata di quella danza armoniosa che guida invece lo sviluppo embrionale.
La scoperta apre nuove prospettive terapeutiche: in futuro, grazie a farmaci mirati e anticorpi monoclonali sarà possibile colpire con un unico vettore sia Wnt che TAZ e arrestare, quindi, lo sviluppo della malattia.