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martedì 1 gennaio 2019

Padova, intervento record. Asportato tumore dal cuore senza aprire il torace

Fonte: La Repubblica (articolo originale)

Intervento eccezionale di chirurgia oncologica a Padova, dove una task force di specialisti - cardiochirurghi, urologi, chirurghi epatobiliari - ha rimosso un tumore renale, esteso al cuore, senza aprire il torace. Il tutto grazie a una nuova tecnica, usata - informa l'Azienda ospedaliera della città veneta - per la prima volta al mondo, che ha consentito di aspirare la parte cancerosa.

L'operazione, realizzata da 28 professionisti susseguitisi in sala operatoria, aveva come paziente un 77enne le cui condizioni non consentivano l'operazione tradizionale, più invasiva. L'intervento "è stato portato a termine 'aspirando' la massa senza aprire il torace con una nuova tecnica. E' la prima volta al mondo e ora il paziente è in recupero e tornerà presto alla sua vita normale". Lo comunica in una nota l'Azienda ospedaliera di Padova. "Questo tipo di intervento - proseguono i medici - viene normalmente eseguito con l'asportazione del rene coinvolto dal tumore attraverso l'apertura dell'addome e la rimozione del trombo/tumore dal cuore attraverso l'apertura del torace e del cuore con l'ausilio del bypass cardiopolmonare totale in collaborazione tra urologi e cardiochirurghi".

"Nel caso specifico, per la presenza delle numerose patologie ed in particolare per il pregresso intervento con i bypass localizzati nei siti chirurgici strettamente connessi alla riapertura, l'approccio tradizionale era proibitivo", ricordano gli specialisti. Così, coordinati e diretti dal professor Gino Gerosa, direttore della Cardiochirurgia, i chirurghi hanno studiato a tavolino il caso clinico.

"La storia di questo paziente ha imposto di cercare una soluzione alternativa all'intervento classico, e così è stata messa in piedi la task force di cardiochirurghi, urologi e chirurghi epatobiliari, coadiuvati da cardioanestesisti e personale sanitario per realizzare il delicato intervento, mai effettuato prima - sottolineano gli esperti - E' stato optato per l'approccio innovativo microinvasivo con sistema AngioVAC e entrando nel vivo dell'intervento i professionisti si sono susseguiti per specialità, alternandosi al tavolo operatorio come in una staffetta".

"Il nuovo approccio con l'inserimento, senza incisioni chirurgiche, della cannula di aspirazione a livello di una vena del collo collegata ad una pompa centrifuga e ad un filtro ha permesso come un'aspirapolvere l'aspirazione ad alto flusso del tumore - ricordano i medici - Il sangue aspirato dall'interno del cuore durante l'intervento chirurgico è stato filtrato e re-immesso nel circolo arterioso attraverso un'altra cannula posta all'altezza dell'arteria femorale.Per la prima volta al mondo, la particolare configurazione artero-venosa del sistema AngioVAC in modalità Ecmo non solo ha permesso l'aspirazione della massa dal cuore ma ha garantito la stabilizzazione del paziente durante tutte le fasi dell'intervento chirurgico"

Ma quali sono le prospettive future di questo innovativo approccio? "Il nuovo approccio chirurgico microinvasivo permette l'asportazione di masse intracardiache da tumori renali senza aprire il torace, a cuore battente, senza l'ausilio della circolazione extra corporea con una sola incisione a livello dell'inguine - rispondono gli specialisti - L'innovativa configurazione artero-venosa in modalità Ecmo consente l'aspirazione della massa intracardiaca e la stabilizzazione del paziente durante tutte le fasi dell'intervento".

"Interventi di questa complessità, possono essere realizzati in centri altamente specializzati grazie al supporto di tecnologie all'avanguardia e di personale altamente professionale, duttile ad esperienze multidisciplinari", concludono gli esperti.

L'intervento è stato salutato dal presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, come un episodio che "chiude nel migliore dei modi un anno di successi della sanità veneta e costituisce un viatico di progresso scientifico, non solo per il 2019, ma anche per gli anni a venire".

sabato 7 aprile 2018

L’overdose di cibo “supergrasso” trasforma i globuli rossi



Fonte: La Repubblica (articolo originale)

Avete presente un globulo rosso, la cellula dal sangue che grazie all’emoglobina contenuta trasporta l’ossigeno a tutto l’organismo?
Nel corpo umano ce ne sono miliardi di miliardi e, tra le loro funzioni, c’è anche la regolazione della disponibilità di ossido nitrico che aiuta le arterie a mantenersi elastiche e quindi a dilatarsi in caso di bisogno.
Ma quanta differenza esiste tra un globulo rosso di una stessa persona prima e dopo un pasto ricchissimo in grassi.
Basta un solo appuntamento con questo tipo di cibo per rendere queste cellule più piccole e modificarne la forma.
Infatti, un carico in acuto di cibo grasso creerebbe veri e propri “spuntoni” sulla superficie dei globuli rossi, capaci non solo di modificarne la forma ma anche di “alterare” la loro funzione.

Tutte queste trasformazioni negative, presumibilmente temporanee, si osservano dopo una sola overdose di grassi alimentari.
A dimostrarlo è una ricerca apparsa su Laboratory Investigation e condotta dagli scienziati del Medical College della Georgia, di Augusta.
Lo studio, coordinato da Tyler W. Benson, è estremamente semplice.
Sono stati presi in esame dieci uomini che facevano regolare attività fisica e che avevano valori di colesterolo e trigliceridi del sangue perfettamente nella norma.
Poi sono stati fatti due gruppi da cinque.
Nel primo, i volontari hanno assunto una sorta di “beverone” ad altissimo contenuto in grassi, con un calcolo delle calorie proporzionato al fisico del soggetto, una sorta di pasto “iperlipidico” spinto.
Nel secondo invece, pur se con lo stesso quantitativo calorico, l’apporto nutrizionale in lipidi era estremamente ridotto e compensato da carboidrati e proteine.
Dopo quattro ore dal pasto sono stati fatti gli esami del sangue, gli scienziati si sono concentrati in particolare sulle caratteristiche dei globuli rossi e sono apparse le sorprese sotto forma di una riduzione della dimensione e un cambio della loro forma.
Sono comparsi infatti dei globuli rossi caratterizzati da un bordo “frastagliato”, presumibilmente meno capaci di viaggiare nei vasi sanguinei più piccoli, dove queste cellule consegnano normalmente il loro carico di ossigeno.

Inoltre, è bastata un’unica overdose alimentare di lipidi per notare un altro fenomeno potenzialmente negativo per il cuore: l’eccesso concentrato di grasso alimentare ha indotto un aumento della mieloperossidasi, enzima che già in passato ha dimostrato di influenzare l’elasticità delle arterie e l’ossidazione del colesterolo HDL, a tutto vantaggio di quello “cattivo” o LDL.

«Questo studio è interessante - segnala Pablo Werba, responsabile dell’Unità Prevenzione Aterosclerosi del Centro Cardiologico Monzino, IRCCS di Milano - perché scopre possibili meccanismi alla base dell’insorgenza “inaspettata” di problemi coronarici, come l’angina o l’infarto del miocardio, dopo un’abbuffata di cibo grasso.
Le evidenze emerse ci suggeriscono di considerare anche questo eccesso insieme agli altri comportamenti più noti che possono scatenare eventi cardiaci, come gli episodi di ira o gli sforzi fisici esagerati e inconsueti».

Insomma: l’eccesso di grasso alimentare può risultare davvero uno stress per il sangue e per il cuore. Quindi, meglio evitare overdose di cibo ipergrasso.

domenica 5 novembre 2017

Mai esagerare con lo sport, più di 7 ore e mezza di allenamento a settimana fanno male

Fonte: Articolo La Repubblica Salute
Il troppo stroppia, forse anche nello sport: gli uomini che praticano attività fisica per più di 7 ore e mezza a settimana presentano un rischio aumentato dell'86% di depositi di calcio alle arterie coronarie.
E queste placche, in base a recenti evidenze, sembrano essere associate a eventi cardiovascolari anche fatali, come infarto e ictus.
A dimostrare l'associazione fra sport eccessivo e calcificazioni alle coronarie è uno studio Usa, chiamato Cardia (Coronary Artery Risk Development in Young Adult Study), condotto su migliaia di persone, che ha analizzato su un periodo di oltre 25 anni gli effetti a lungo termine di un esercizio sportivo molto frequente.
Il rischio emerso dall'indagine – che per ora rimane una semplice associazione statistica e non dimostra un rapporto di causa-effetto fra troppo sport e placche di calcio nelle arterie – riguarda principalmente gli individui di sesso maschile e di etnia bianca.
Tutti i dettagli della ricerca sono pubblicati su Mayo Clinic Proceedings (vedi sotto).

La calcificazione delle arterie consiste in depositi di calcio sulle arterie coronarie che, insieme alle note placche aterosclerotiche (composte da varie sostanze fra cui il famoso colesterolo), sembrano aumentare il rischio di infarto e altri eventi cardiovascolari.
Tuttavia il legame fra calcificazioni coronariche e rischio di infarto è ancora oggetto di studio da parte della comunità scientifica.
E lo studio Cardia nasce anche dall'esigenza di comprendere meglio questo legame, come ha spiegato Stefano Bianchi, cardiologo al Fatebenefratelli San Giovanni Calibita, Isola Tiberina di Roma.
“Questa ampia ricerca – ha sottolineato l'esperto – è nata per valutare se e in che modo la genetica e lo stile di vita, dalla dieta all'attività fisica, abbiano un'influenza sull'evoluzione della malattia coronarica e sul rischio di infarto”.

Per svolgere l'indagine gli autori hanno selezionato un campione di quasi 3.200 persone che, all'inizio dello studio, nel 1985,avevano un'età compresa fra i 18 e i 30 anni, mentre alla fine , nel 2011, erano fra i 43 e i 55 anni.
Il team di scienziati ha assegnato i partecipanti a diverse categorie in base all'attività fisica svolta, che è stata costantemente valutata durante intervalli di tempo regolari.
Le categorie comprendevano un gruppo di soggetti meno attivi, che avevano svolto meno di 150 minuti di esercizio a settimana; poi vi era un campione di persone che aveva svolto attività mediamente per 150 minuti a settimana, attenendosi dunque alle raccomandazioni delle linee guida internazionali; ed infine i più attivi, che si muovevano per più di 450 minuti a settimana – circa 7 ore e mezza –, superando di più di tre volte la quantità di esercizio raccomandata dagli esperti.

L'intensità dell'attività fisica presa in considerazione variava da un livello moderato, come una camminata o il giardinaggio, fino ad un grado intenso, come la corsa o il nuoto.
La quantità di attività fisica veniva poi messa in relazione con la malattia coronarica e il rischio di infarto.
“Questi due elementi – ha spiegato Bianchi – sono stati espressi attraverso il numero e la gravità delle placche di arteriosclerosi.
Queste placche sono state visionate dagli autori dello studio mediante una Tac coronarica”.

A sorpresa per gli autori dello studio, che non si aspettavano questo risultato, chi aveva svolto un'elevata attività fisica, superando le 7 ore e mezza a settimana, presentava, a distanza di 25 anni, una maggiore incidenza di calcificazioni alle coronarie intorno ai 50 anni.
Mentre i partecipanti del gruppo meno attivo, che avevano praticato meno di 150 minuti di esercizi a settimana, sono risultati anche meno a rischio di queste calcificazioni alle coronarie.
Nel caso di un'elevata attività sportiva, superiore alle 7 ore e mezza a settimana, il rischio di placche di calcio alle coronarie aumentava dell'86% nelle persone di sesso maschile e etnia bianca, mentre cresceva meno, cioè del 27%, se si considerano tutte le categorie di persone (entrambi i sessi e tutte le etnie).

“Questa sotto-analisi – ha illustrato Bianchi – all'interno del vasto studio Cardia, pubblicata da Mayo Clinic, sembrerebbe mostrare che l’eccessiva attività fisica, tre volte superiore a quella consigliata dalle linee guida internazionali, possa essere controproducente per la salute delle coronarie”.
Le ragioni di questo dato sono ancora da approfondire e pongono interessanti quesiti, dato che ad esempio gli uomini caucasici sembrano essere più a rischio. Ma c'è anche un'altra faccia della medaglia: un'elevata attività fisica potrebbe anche fungere da elemento protettivo contro la rottura delle placche aterosclerotiche, dunque contro gli attacchi di cuore. Un elemento ancora tutto da valutare, che apre il dibattito su importanti aspetti della salute cardiovascolare.

Quella di oggi, inoltre, non è la prima ricerca sul tema delle calcificazioni coronariche, che già in base a ricerche precedenti sembrano


Link

Articolo originale (Inglese)

venerdì 13 gennaio 2017

Scoperto perché lo stress manda in tilt il cuore

Fonte: La Repubblica Ricerca

Se siamo stressati mettiamo a rischio anche il nostro cuore.
Può farci male come fumare o avere la pressione alta.
Da tempo si conosceva la relazione fra stati di tensione e affaticamento con le malattie cardiache, ma ora uno studio, pubblicato su 'The Lancet', ha evidenziato che l'amigdala, quella parte del cervello che gestisce le emozioni, diventa iperattiva e aziona le difese immunitarie scatenando processi infiammatori deleteri per l'apparato cardiovascolare.

Stress e sistema immunitario
I ricercatori del Massachusetts General Hospital e dell'Icahn School of Medicine at Mount Sinai (Ismms) di New York, hanno scoperto che l'accresciuta attività dell'amigdala, l'area che elabora le emozioni come l'ansia, la paura o la rabbia, segnala al midollo osseo di produrre più cellule di globuli bianchi, che a loro volta agiscono sulle arterie infiammandole.
In pratica il cervello manda al sistema immunitario 'un segnale sbagliato' e quest'ultimo, in determinate condizioni, può causare infarto, angina e ictus.
Il collegamento potenziale "aumenta la possibilità che ridurre le stress può produrre benefici che vanno oltre il miglior senso di benessere psicologico", scrive l'autore, Ahmed Tawakol, del Massachusetts General Hospital e professore associato alla Harvard Medical School.

Lo studio
Gli autori dello studio hanno analizzando i dati di imaging e cartelle cliniche di quasi 300 persone sottoposte a Pet/Ct principalmente per screening oncologici, con un radiofarmaco che misura l'attività delle aree del cervello da un lato e mette in luce l'infiammazione nelle arterie dall'altro.
Tra i soggetti analizzati nessuno aveva un tumore attivo o malattie cardiovascolari quando si è sottoposto all'esame.
Dopo un periodo di monitoraggio dell'intero campione della durata media di quasi 4 anni, è emerso che i soggetti più stressati e con amigdala più attiva sviluppano malattie cardiovascolari con maggiore frequenza.
"Mentre un collegamento tra stress e malattie cardiache è stato da tempo stabilito, il meccanismo che media questo rischio non era stato chiaramente individuato  -  spiega Ahmed Tawakol, della divisione di cardiologia del Massachusetts General Hospital, autore principale del lavoro - .
Gli studi sugli animali hanno dimostrato che lo stress sollecita il midollo osseo a produrre globuli bianchi, portando a un'infiammazione arteriosa.
La nostra ricerca suggerisce che un percorso analogo esiste anche negli esseri umani".

Gli esperti hanno ripetuto lo studio su 13 soggetti con disturbo da stress post-traumatico, una condizione che segue a un forte trauma e hanno visto che avevano amigdala e sistema immunitario più attivi, una maggiore infiammazione dei vasi e maggior rischio di malattie cardiovascolari.

Traumi e malattie
"Già in passato si era già visto che pazienti con problemi neuropsichiatrici come ad esempio, con sindrome ansiosa depressiva o con stress post-straumatico, avevano un'attività abnorme dell'amigdala - spiega Furio Colivicchi, direttore dell'UOC di Cardiologia del San Filippo Neri - .
Grazie a questi esami è stato possibile vedere quali sono le aree del cervello 'attive' in determinati momenti e a intuire per la prima volta il collegamento fra stress e il funzionamento di milza e midollo osseo che regolano il sistema immunitario".

Stressati e 'fragili'
L'amigdala è la nostra 'memoria emotiva'. Quando siamo molto stressati siamo più fragili? "Persone stressate o per un trauma, o per una situazione di deprivazione sociale, per un abbandono o un lutto, sono in una situazione sfavorevole.
E' chiaro che è necessario un concorso di elementi per arrivare all'infarto, ma possiamo dire che un forte stress può favorire un danno vascolare.
Il sistema immunitario 'si attiva' perché riceve un ordine sbagliato dall'amigdala e questa reazione si ritorce sulle arterie".

martedì 20 agosto 2013

Esagerare con il pesce grasso può far male al cuore

Dalla rubrica Salute - Corriere della Sera (vedi articolo originale)


Il pesce fa bene al cuore, su questo ci sono ormai ben pochi dubbi.

Eppure se si esagera e se ne mangia troppo anche salmone e compagnia possono far male, aumentando il rischio di aritmie gravi come la fibrillazione atriale.

Lo dimostra una ricerca danese presentata a EHRA EUROPACE 2013, secondo cui l'ideale sarebbe un apporto “medio” dei preziosi acidi grassi omega-3 del pesce: introdurne troppi o troppo pochi è ugualmente dannoso per la funzionalità del cuore.

STUDIO – I dati sono stati raccolti da Thomas Rix dell'ospedale universitario danese di Aalborg su oltre 57mila persone dai 50 ai 64 anni che facevano parte del Danish Diet, Cancer and Health Study, un'indagine nata per indagare il ruolo della dieta nello sviluppo dei tumori.

Attraverso questionari si sono raccolte informazioni precise sull'alimentazione dei partecipanti, ricostruendo il consumo di pesce e da questo l'introito quotidiano medio di acidi grassi omega-3; tutti sono stati poi seguiti per oltre 13 anni registrando i casi di fibrillazione atriale occorsi nel frattempo, poco meno di 3500 nell'arco del periodo di osservazione.

Quindi, si sono confrontate le diete di chi si era ammalato e degli altri, scoprendo che rispetto a chi non mangiava mai o pochissimo pesce (da zero a 0,38 grammi al giorno di omega-3) chi lo consumava in quantità moderate (da 0.39 a 0.53 grammi o da 0.54 a 0.73 grammi al giorno) aveva un rischio di fibrillazione atriale dal 9 al 13 per cento inferiore.

All'aumentare degli omega-3, però, non si è visto un progressivo ridursi del pericolo di aritmie, anzi: i partecipanti con un consumo elevato (oltre 0.73 ma entro 0.99 grammi al giorno) avevano un rischio ridotto di appena il 4 per cento, quelli che mangiavano moltissimo pesce (oltre 1 grammo al giorno di omega-3) avevano addirittura una probabilità di aritmie del 3 per cento superiore a chi non lo consumava mai o pochissimo.

PESCE – La «dose» di pesce che garantisce il minimo rischio è quella che apporta circa 0.63 grammi di omega-3 al giorno, ovvero circa due porzioni a settimana di pesci ricchi di grassi “buoni” come salmone, acciughe, sgombri e simili.

«La riduzione del 13 per cento del rischio di aritmia con questi livelli di consumo si può spiegare con effetti diretti antiaritmici degli omega-3, a cui si aggiungono proprietà antinfiammatorie e di riduzione del pericolo di ischemia cardiaca che contribuiscono alla salute del cuore – osserva Rix –. Questo dato conferma osservazioni precedenti secondo cui mangiare pesce da una a quattro volte a settimana riduce di quasi un terzo il pericolo di fibrillazione atriale rispetto a consumarlo meno di una volta al mese.

Più difficile spiegare i meccanismi biologici connessi all'incremento del rischio di aritmia in chi mangia molto pesce, invece: possiamo solo supporre che il bilancio fra gli effetti di inibizione o al contrario di promozione della fibrillazione atriale si modifichi in base alle altre patologie eventualmente presenti, ma non abbiamo idea del motivo reale.

Saranno necessari ulteriori ricerche per capire perché troppi omega-3 possano essere deleteri; tuttavia, questi dati potrebbero spiegare perché l'uso di questi composti per la prevenzione delle patologie cardiovascolari abbia dato risultati contraddittori, in passato».

sabato 29 dicembre 2012

Esercizio fisico vigoroso: così il tessuto cardiaco ricresce dopo l'infarto

Tratto da "Salute 24" (vedi articolo originale)

Leggi articolo originale su European Heart Journal

Niente di meglio di un quotidiano e vigoroso esercizio fisico per favorire la riabilitazione dopo un attacco di cuore: secondo uno studio pubblicato sull'European Heart Journal dai ricercatori della Liverpool John Moores University (Regno Unito), il movimento fisico non blando aiuterebbe le cellule staminali cardiache «dormienti» ad attivarsi, stimolando la crescita di nuovo tessuto cardiaco e favorendo, quindi, il recupero post-insufficienza cardiaca. 

Lo studio, per ora condotto su un gruppo di topi, ha dimostrato che lo sport - mezz'ora di tapis roulant 4 volte a settimana, per 4 settimane - rende attive più del 60% delle cellule staminali cardiache che solitamente, negli adulti, rimangono dormienti, oltre a migliorare la capacità aerobica e l'irrorazione sanguigna.
Dopo solo due settimane di esercizio aerobico i topi avevano infatti aumentato il numero di cardiomiociti - le cellule battenti del tessuto cardiaco - del 7%.

Questo studio è il primo del suo genere a suggerire che la riabilitazione basata sul movimento fisico potrebbe avere lo stesso effetto sulle cellule dormienti delle iniezioni di apposite sostanze chimiche che stimolino le staminali stesse a produrre nuovo tessuto, e aggiunge nuove evidenze scientifiche che confermano che il cuore può essere in grado di rigenerarsi autonomamente.
Altri studi dovranno però essere condotti per comprendere se gli stessi effetti possono essere sortiti sugli uomini.

giovedì 6 dicembre 2012

Il nervo vago e il cuore

In caso di mancata innervazione del ramo destro del nervo vago parasimpatico al nodo sino-atriale provoca delle tachicardie, mentre se viene a mancare quello sinistro, manca l’innervazione al nodo atrio-ventricolare e di conseguenza crea aritmie.

Riparabili i danni dell'infarto


La rigenerazione del cuore dopo un infarto è una prospettiva possibile e concreta grazie alla scoperta di un gruppo di ricercatori del Centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologie dell’Unido a Trieste e guidato dal professor Mauro Giacca.

La scoperta pubblicata su Nature (leggi articolo) riguarda l’identificazione di quaranta piccole molecole di Rna, le quali iniettate nel cuore sono in grado di risvegliare e attivare le cellule dormienti di una parte danneggiata da un infarto del miocardio, ad esempio, rigenerandole, e guarendo quindi senza lasciare cicatrice alcuna.

PROSSIMO FARMACO

Il gruppo di Giacca stava lavorando da una decina d’anni a questo obiettivo e da un paio d’anni era iniziata l’identificazione dei microRna codificati dal genoma umano.

Una volta trovati sono iniziate le sperimentazioni su topi, ratti e cellule umane in provetta dimostrando di funzionare come previsto.

«Ora continueremo le ricerche - precisa Giacca -, per arrivare come obiettivo alla generazione di un farmaco che, iniettato nel cuore danneggiato, possa facilmente innescare la ricostruzione.

Ed è un obiettivo concreto e può essere anche molto vicino».

Nel mondo ogni anno vi sono 17 milioni di vittime per malattie cardiache, l’80 per cento delle quali nei Paesi in via sviluppo.

La prospettiva dunque offerta dal risultato triestino è tremendamente importante.