Visualizzazione post con etichetta ateriosclerosi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta ateriosclerosi. Mostra tutti i post

lunedì 15 luglio 2019

Il gene dei centenari che protegge i vasi sanguigni (proteina BPIFB)

Fonte (Repubblica Salute)

Qual'è il segreto dei centenari?
Una parte degli studi volti a comprendere perché alcune persone riescano a vivere più di altre, tagliando il traguardo del secolo, si concentra sui geni.
O meglio sulle varianti geniche: forme di uno, o più geni, che possano essere associate alla longevità.
La speranza è di comprendere quali sono i meccanismi biologici alla base e magari di replicarli così da migliorare salute e sopravvivenza della popolazione in generale.
Un traguardo ambizioso, fatto di tanti piccoli passi. Oggi a compierne uno in questa direzione è il lavoro presentato sulle pagine dell'European Health Journal, in cui un team di ricercatori italiani mostra come una variante genica associata alla longevità possa migliorare la salute vascolare nei topi.
Potenzialmente, raccontano gli scienziati, la proteina prodotta da questo gene potrebbe migliorare la salute cardiovascolare umana. Ma andiamo con ordine.

La variante genica in questione si chiama LAV (“longevity associated variant”) e contiene le istruzioni per la produzione della proteina BPIFB4. Questa particolare versione del gene sembra trovarsi più frequentemente nelle persone che vivono a lungo, e oggi un team di ricercatori dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli, dell’I.R.C.C.S. MultiMedica di Sesto San Giovanni e dell’Università degli Studi di Salerno, ha cercati di capire se questa proteina potesse avere un effetto protettivo sulla salute cardiovascolare.
La proteina in questione infatti sembra coinvolta nel regolare la funzione endovascolare.

Gli scienziati hanno condotto una serie di esperimenti in vivo sui modelli animali e in vitro su vasi sanguigni umani.
Nei topi i ricercatori hanno adottato un approccio di terapia genica: hanno inserito all'interno delle cellule degli animali – suscettibili all'aterosclerosi e quindi a complicazioni cardiovascolari, sia per genetica che per alimentazione ricca di grassi – la variante LAV BPIFB4. “Abbiamo osservato un miglioramento della funzionalità dell’endotelio (la superficie interna dei vasi sanguigni), una riduzione di placche aterosclerotiche nelle arterie e una diminuzione dello stato infiammatorio”, ha spiegato Annibale Puca dell''Università di Salerno e dell’I.R.C.C.S. MultiMedica, primo autore della ricerca.

In vitro gli scienziati hanno somministrato la proteina codificata dalla variante genica a vasi sanguigni ottenuti da pazienti con aterosclerosi, osservando effetti simili, come il ripristino della funzione endoteliale, il rilascio di fattori protettivi e l'inibizione di quelli con attività proinfiammatoria.
Infine i ricercatori hanno anche misurato i livelli della proteina BPIFB nel plasma di alcuni pazienti, notando che più alti erano, minore era il rischio cardiovascolare.

Gli scienziati hanno identificato anche i meccanismi molecolari coinvolti nell'azione protettiva della variante genica, e sperano che quanto scoperto possa in futuro portare allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche per migliorare la salute vascolare.
A prescindere dalla genetica, ma modulando i meccanismi molecolari coinvolti. “Dal momento che il principale fattore di rischio per le malattie cardiovascolari è il progressivo invecchiamento della popolazione – scrivono gli autori – svelare i segreti di un invecchiamento in salute potrebbe essere l'unica strada per limitare l'impatto delle patologie cardiovascolari”.
In altre parole, continuano gli esperti, la strada è quella di trasferire il potenziale del dna dei centenari nella prevenzione della salute cardiovascolare.

sabato 7 aprile 2018

L’overdose di cibo “supergrasso” trasforma i globuli rossi



Fonte: La Repubblica (articolo originale)

Avete presente un globulo rosso, la cellula dal sangue che grazie all’emoglobina contenuta trasporta l’ossigeno a tutto l’organismo?
Nel corpo umano ce ne sono miliardi di miliardi e, tra le loro funzioni, c’è anche la regolazione della disponibilità di ossido nitrico che aiuta le arterie a mantenersi elastiche e quindi a dilatarsi in caso di bisogno.
Ma quanta differenza esiste tra un globulo rosso di una stessa persona prima e dopo un pasto ricchissimo in grassi.
Basta un solo appuntamento con questo tipo di cibo per rendere queste cellule più piccole e modificarne la forma.
Infatti, un carico in acuto di cibo grasso creerebbe veri e propri “spuntoni” sulla superficie dei globuli rossi, capaci non solo di modificarne la forma ma anche di “alterare” la loro funzione.

Tutte queste trasformazioni negative, presumibilmente temporanee, si osservano dopo una sola overdose di grassi alimentari.
A dimostrarlo è una ricerca apparsa su Laboratory Investigation e condotta dagli scienziati del Medical College della Georgia, di Augusta.
Lo studio, coordinato da Tyler W. Benson, è estremamente semplice.
Sono stati presi in esame dieci uomini che facevano regolare attività fisica e che avevano valori di colesterolo e trigliceridi del sangue perfettamente nella norma.
Poi sono stati fatti due gruppi da cinque.
Nel primo, i volontari hanno assunto una sorta di “beverone” ad altissimo contenuto in grassi, con un calcolo delle calorie proporzionato al fisico del soggetto, una sorta di pasto “iperlipidico” spinto.
Nel secondo invece, pur se con lo stesso quantitativo calorico, l’apporto nutrizionale in lipidi era estremamente ridotto e compensato da carboidrati e proteine.
Dopo quattro ore dal pasto sono stati fatti gli esami del sangue, gli scienziati si sono concentrati in particolare sulle caratteristiche dei globuli rossi e sono apparse le sorprese sotto forma di una riduzione della dimensione e un cambio della loro forma.
Sono comparsi infatti dei globuli rossi caratterizzati da un bordo “frastagliato”, presumibilmente meno capaci di viaggiare nei vasi sanguinei più piccoli, dove queste cellule consegnano normalmente il loro carico di ossigeno.

Inoltre, è bastata un’unica overdose alimentare di lipidi per notare un altro fenomeno potenzialmente negativo per il cuore: l’eccesso concentrato di grasso alimentare ha indotto un aumento della mieloperossidasi, enzima che già in passato ha dimostrato di influenzare l’elasticità delle arterie e l’ossidazione del colesterolo HDL, a tutto vantaggio di quello “cattivo” o LDL.

«Questo studio è interessante - segnala Pablo Werba, responsabile dell’Unità Prevenzione Aterosclerosi del Centro Cardiologico Monzino, IRCCS di Milano - perché scopre possibili meccanismi alla base dell’insorgenza “inaspettata” di problemi coronarici, come l’angina o l’infarto del miocardio, dopo un’abbuffata di cibo grasso.
Le evidenze emerse ci suggeriscono di considerare anche questo eccesso insieme agli altri comportamenti più noti che possono scatenare eventi cardiaci, come gli episodi di ira o gli sforzi fisici esagerati e inconsueti».

Insomma: l’eccesso di grasso alimentare può risultare davvero uno stress per il sangue e per il cuore. Quindi, meglio evitare overdose di cibo ipergrasso.

giovedì 16 ottobre 2014

Controllare i valori dell’acido urico aiuta a proteggere il cuore e i vasi


Tutti sanno che per guardarsi da infarti e ictus bisogna tenere sotto controllo la pressione, il colesterolo, la glicemia.
Nessuno finora aveva mai sospettato che anche l’acido urico potesse essere un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari: ignorato dai più, noto soltanto a chi soffre di gotta, è invece un nuovo nemico per cuore e vasi che dovremmo tutti imparare a conoscere.
Le ricerche che puntano il dito contro questa sostanza negli ultimi anni si sono accumulate e ormai gli esperti non hanno più dubbi: l’eccesso di acido urico nel sangue, ovvero l’iperuricemia, è corresponsabile di circa il 40 per cento di tutti gli infarti che si registrano ogni anno in Italia.

Misurare l’acido urico

Per questo è al via il progetto Medico amico del Sindacato nazionale autonomo medici italiani (Snami): l’obiettivo è far sì che la gente inizi almeno a sentir parlare di acido urico e decida di misurarlo, visto che il test sul sangue è semplice ed economico e che le stime parlano di almeno 13 milioni di italiani con l’uricemia troppo alta.
«Se per strada chiedessimo alle persone i valori di pressione, uno su due saprebbe indicarli, il 20 per cento sarebbe in grado di dire i propri livelli di colesterolo, ma meno di due su cento si rivelerebbero a conoscenza dell’uricemia - osserva Claudio Borghi, del Dipartimento di Medicina interna, dell’invecchiamento e malattie nefrologiche dell’Università di Bologna -.
Eppure, l’eccesso di acido urico è un fattore di rischio perfino più “pesante” delle alterazioni dei lipidi nel sangue».


Aumentato rischio di mortalità

Gli studi scientifici hanno, ad esempio, verificato che l’iperuricemia aumenta fino al 26 per cento il rischio di mortalità per cause cardiovascolari e del 22 per cento l’eventualità di un ictus, triplica il pericolo di diabete e ha effetti negativi sia sulla pressione arteriosa che sulla funzionalità dei reni. Non è un caso, perciò, che i malati di gotta, che hanno un’iperuricemia assai elevata, abbiano una probabilità parecchio più alta del normale di andare incontro a infarti e diabete.
«I meccanismi del danno da acido urico sono numerosi - interviene Angelo Testa, presidente Snami -.
I cristalli di urato, ad esempio, possono depositarsi sulla parete delle arterie creando piccole “asperità” su cui poi si depone il colesterolo, dando luogo a placche aterosclerotiche».
«Inoltre, - aggiunge Borghi - i processi biochimici di sintesi dell’acido urico portano alla formazione di una grossa quantità di radicali che favoriscono l’ossidazione, alterando la funzionalità della parete dei vasi e rendendoli perciò più suscettibili all’aterosclerosi».
L’eccesso di acido urico, inoltre, è legato a doppio filo alla sindrome metabolica, il complesso di anomalie del metabolismo che si manifesta con sovrappeso, resistenza all’insulina, colesterolo e trigliceridi oltre i limiti e pressione alta: si è infatti verificato che l’acido urico promuove alterazioni infiammatorie sulle cellule di grasso che preludono alla comparsa di obesità e diabete, mentre l’iperinsulinemia tipica della sindrome metabolica riduce l’escrezione di acido urico dai reni favorendone perciò la deposizione.
Un circolo vizioso insomma, in cui una sola cosa pare certa: è bene sapere quanto acido urico abbiamo in circolo e tenerlo basso.
«La soglia attuale è fissata in 6 milligrammi per decilitro di sangue: oltre i 6,5 sappiamo che gli urati possono iniziare precipitare dando avvio alla gotta - spiega Borghi -.
Sembra però che per il rischio cardiovascolare il valore limite debba essere un po’ abbassato, attorno a 5,5 mg/dl: già a questi livelli, infatti, la probabilità di aterosclerosi cresce, soprattutto nei pazienti che hanno altri fattori di rischio come ipertensione, colesterolo alto o iperglicemia».

mercoledì 27 agosto 2014

La lipoproteina (a) migliora la predizione del rischio solo se è molto elevata

Tratto dal sito della SISA (vedi articolo originale)

Il ruolo della lipoproteina (a) [Lp(a)] nella stima del rischio cardiovascolare è stato e continua ad essere oggetto di dibattito.
La Lp(a) è una particella simile alle LDL, se ne differenzia solo per la presenza di una glicoproteina denominata apo(a) che è legata covalentemente all'apo B.
A differenza delle altre lipoproteine che hanno una funzione biologica chiara come molecole di trasporto dei lipidi nel plasma, la funzione della Lp(a) è praticamente sconosciuta.
In vitro, è stato osservato che è in grado di oltrepassare l'intima arteriosa umana e, negli studi compiuti su animali, è stata riportata la capacità di Lp(a) di promuovere trombosi, infiammazione e formazione di cellule schiumose, effetti questi che interessano i momenti salienti dell'aterosclerosi: genesi, progressione ed evento clinico finale.
Nella maggior parte dei numerosi studi epidemiologici degli ultimi anni, l'associazione tra concentrazione ematica di Lp(a) e rischio cardiovascolare è confermata, ma l'associazione rimane modesta e l'aggiunta della Lp(a) ai tradizionali marcatori lipidici e non lipidici del rischio cardiovascolare ha un impatto solo marginale sulla classificazione dei pazienti nelle classi di rischio (1).
Il livello plasmatico di Lp(a) è estremamente variabile: da valori molto bassi, quasi indosabili (<0,2 mg/dL) a livelli molto elevati (>200 mg/dL), cioè 1.000 volte di più.
La variabilità dipende essenzialmente dalle isoforme dell'apo(a) che si differenziano tra loro per la dimensione della molecola che è determinata dal numero di ripetizioni delle tipiche strutture ad ansa, i kringle, in particolare dal numero di kringle 4 tipo 2 (2).
Più la molecola di apo(a) è piccola, più la concentrazione plasmatica di Lp(a) è elevata, probabilmente perché è più efficientemente secreta dagli epatociti di quanto non lo siano le isoforme di dimensioni maggiori.
Il polimorfismo del gene che codifica per le dimensioni dell'apo(a) è dunque il maggior predittore della concentrazione plasmatica di Lp(a) e rende conto del 40-70% della variazione dei livelli plasmatici della lipoproteina, cui contribuiscono comunque anche altre varianti genetiche (3).
Il forte ruolo della genetica nel determinare il livello della Lp(a) è responsabile della sua particolare distribuzione nella popolazione che, a differenza di quanto si osserva in generale per altri analiti, tra cui il colesterolo, non è normale, ma è fortemente asimmetrica e questo può essere causa delle difficoltà nell'accertare il peso di Lp(a) nella stima del rischio di aterosclerosi.
Recentemente sono state trovate due varianti genetiche caratterizzate da livelli particolarmente alti di Lp(a) di piccole dimensioni ed ambedue le varianti erano associate ad un elevato rischio cardiovascolare (4).
La prevalenza di queste varianti genetiche non è nota e dipende in gran parte dall'etnia della popolazione studiata.
Nello studio PROCARDIS (Precocious Coronary Artery Disease), condotto su oltre 6.000 soggetti, di cui circa la metà con malattia coronarica, reclutati in Gran Bretagna, Italia, Svezia e Germania, una persona su sei è risultata portatrice di una di queste due varianti e aveva di conseguenza livelli più elevati di Lp(a) e un rischio di infarto doppio rispetto ai soggetti con genotipo diverso.
I soggetti portatori di entrambe le varianti avevano un rischio elevato di più di quattro volte (4).
La Lp(a) si conferma quindi come un fattore di rischio cardiovascolare indipendente da quelli tradizionali quali colesterolo totale, colesterolo LDL, apoproteina B, ipertensione, diabete, obesità e fumo, ma il suo peso prognostico è rilevante solo quando i suoi livelli sono elevati.
Mancherebbe, cioè, una relazione continua tra livello di Lp(a) e rischio e questo, insieme a problemi di standardizzazione della metodica di misura, potrebbe spiegare i risultati spesso contrastanti degli studi epidemiologici.
La stima del rischio è basata sullo studio di popolazioni che per la maggior parte hanno bassi valori di Lp(a) e questo comporta che il peso della Lp(a) nella stima sia così diluito da diventare poco significativo.
La Kamstrup ed i suoi collaboratori hanno riclassificato nelle classi di rischio i pazienti che avevano un livello di Lp(a) maggiore di 47 mg/dL, corrispondente ad un valore superiore all'80esimo percentile della distribuzione nel loro campione di 8.720 pazienti ed hanno osservato che nel 23% di essi il rischio di infarto veniva riclassificato più correttamente ad un livello superiore se si aggiungeva al pannello dei fattori di rischio anche la Lp(a). Nessun miglioramento nella stima del rischio si è invece osservato nell'intera popolazione, a conferma del fatto che solo nei soggetti con valori elevati di Lp(a), la sua misura ha un impatto significativo sulla stima del rischio.
Da questo studio e da altri risulterebbe quindi inutile la misura della Lp(a) nella popolazione generale per una più precisa valutazione del rischio cardiovascolare, come del resto era già stato sottolineato da più parti e anche nelle recenti linee guida congiunte delle Società europee di cardiologia e dell'arteriosclerosi (5) che suggeriscono la determinazione della Lp(a) solo nei soggetti con un alto rischio cardiovascolare o con una forte familiarità per malattie aterosclerotiche precoci.
Rimane però il problema di cosa fare se il rischio cardiovascolare è elevato a causa dell'alta concentrazione di Lp(a).
Solo l'acido nicotinico aveva dimostrato una buona azione di riduzione di questa lipoproteina, ma il farmaco non è più disponibile. Non rimane altro che intervenire con più energia sugli altri fattori di rischio modificabili.

domenica 24 agosto 2014

Segnali di gas fra cellule


Tratto dal sito Galileo (vedi articolo originale)

Il monossido di azoto, noto per essere un pericoloso inquinante derivato dagli scarichi delle macchine, è in realtà prodotto anche dalle cellule degli animali superiori, le quali se ne servono per comunicare fra loro.
Questa in sintesi l’importantissima scoperta che è stata premiata quest’anno con il Nobel per la medicina, assegnato a Robert F. Furchgott della State University a New York, Luiss J. Ignarro, della University of California a Los Angeles e Ferid Murad, della Texas Medical School a Houston.

“L’aspetto rivoluzionario degli studi appena premiati con il Nobel, sta nel fatto che essi hanno aperto nuovi orizzonti sui mezzi utilizzati dalle cellule per trasmettersi messaggi, un’attività che è alla base dello sviluppo e della sopravvivenza di ogni animale”, spiega Pietro Calissano, direttore dell’Istituto di Neurobiologia del CNR, a Roma.
Fino a pochi anni fa infatti, si riteneva che le cellule potessero comunicare fra loro solo tramite ormoni, prodotti dalle ghiandole endocrine, o neurotrasmettitori, prodotti dalle cellule nervose.
Gli ormoni sono messaggeri che diffondono in tutto l’organismo, anche se vengono recepiti solo da quelle cellule che hanno sulla loro membrana le molecole adatte per legarli.
Possiamo immaginare che gli ormoni trasmettano messaggi in maniera simile ai giornali, che sono disponibili per moltissime persone ma vengono letti solo da coloro che hanno i mezzi per riceverli (ad esempio perché hanno denaro per comprarli o sanno leggere).
I neurotrasmettitori invece sono generalmente utilizzati da una cellula nervosa per trasmettere un messaggio a un’altra cellula, di solito vicina.
In questo senso il loro modo di comunicare è simile a quello ottenuto con una telefonata, che stabilisce un contatto diretto tra due interlocutori.

“Quello che nessuno si aspettava, almeno fino alle scoperte dei tre scienziati appena premiati”, continua Calissano, “è che esistesse un’altra possibile via di comunicazione fra cellule e che utilizzasse molecole insospettabili come dei gas, quali appunto il monossido di azoto”.
Quest’ultimo viene emesso da alcune cellule, fra cui cellule nervose o cellule dell’epitelio che riveste i vasi, e raggiunge le cellule vicine, senza però essere specifico per una sola “interlocutrice”, come i neurotrasmettitori, e senza diffondersi per lunghe distanze, come gli ormoni.

Il primo passo verso la scoperta dell’uso del monossido di azoto da parte delle cellule è stato compiuto nel 1977 da Ferid Murad.
In quel periodo lo scienziato studiava il meccanismo di azione della nitroglicerina, impiegata da più di un secolo come cura per l’angina pectoris, in quanto causa la dilatazione delle arterie.
Inaspettatamente Murad scoprì che la nitroglicerina provoca il rilassamento della muscolatura dei vasi sanguigni perché rilascia monossido di azoto.
Sebbene l’idea fosse affascinante, all’epoca non vi erano dati scientifici per approfondire questa tesi.
Alla svolta si è giunti nel 1986, quando a una conferenza scientifica Ignarro e Furchgott annunciarono di aver scoperto che il monossido di azoto viene utilizzato nel corpo umano per trasmettere segnali.
Era la prima volta che si ipotizzava una funzione del genere per un gas.

Secondo l’ipotesi degli scienziati, alcune molecole segnale, come ormoni e neurotrasmettitori, circolano nell’epitelio che riveste un vaso sanguigno parzialmente occluso da placche di colesterolo.
In risposta a tali segnali le cellule epiteliali producono monossido di azoto il quale, diffondendosi come una nuvoletta di gas, raggiunge le vicine cellule della muscolatura liscia che governano la contrazione e il rilascio del vaso.
Penetrando in queste cellule il monossido di azoto attiva una serie di reazioni chimiche che determinano il rilassamento dei muscoli, e quindi la dilatazione dell’arteria.

“Dal 1986 ad oggi le scoperte sull’azione del monossido di azoto si sono moltiplicate” dice Calissano, “infatti, come spesso avviene, anche il meccanismo di comunicazione tramite gas è utilizzato in diversi distretti dell’organismo per funzioni diverse.
Particolarmente interessante è stata ad esempio la scoperta che esso viene utilizzato dalle cellule nervose come via di comunicazione, in sinergia con i neurotrasmettitori classici.”
Oltre alle cellule dei vasi sanguigni e a quelle nervose si è recentemente scoperto che il monossido di azoto viene prodotto anche dalle cellule del sistema immunitario, che se ne servono come arma chimica, per intossicare i batteri e i parassiti.

Altrettanto interessanti sono gli sviluppi clinici, in breve tempo si spera di poter utilizzare il gas per curare più efficacemente l’aterosclerosi e buoni risultati sono stati ottenuti nella cura dell’alta pressione sanguigna nei polmoni dei bambini.
Inoltre lo studio del monossido di azoto come vasodilatatore ha permesso la messa a punto di farmaci contro l’impotenza, fra cui il Viagra.

“Molto promettenti sono gli studi sull’azione di questo gas nel cervello”, conclude Calissano, “ad esempio sembra che abbia un ruolo fondamentale nel determinare la morte delle cellule cerebrali in seguito a un’ischemia.
Inoltre è stata accertata la capacità del monossido di azoto di spingere alcune cellule verso l’apoptosi, ovvero verso una forma di suicidio programmato. Per questo motivo i ricercatori sperano di poterlo presto utilizzare per indurre alla morte le cellule tumorali.
Non bisogna poi dimenticare le interessanti prospettive aperte dalla successiva scoperta di altri gas con la medesima funzione di comunicare, quali ad esempio l’ossido di carbonio”.