mercoledì 27 agosto 2014

La lipoproteina (a) migliora la predizione del rischio solo se è molto elevata

Tratto dal sito della SISA (vedi articolo originale)

Il ruolo della lipoproteina (a) [Lp(a)] nella stima del rischio cardiovascolare è stato e continua ad essere oggetto di dibattito.
La Lp(a) è una particella simile alle LDL, se ne differenzia solo per la presenza di una glicoproteina denominata apo(a) che è legata covalentemente all'apo B.
A differenza delle altre lipoproteine che hanno una funzione biologica chiara come molecole di trasporto dei lipidi nel plasma, la funzione della Lp(a) è praticamente sconosciuta.
In vitro, è stato osservato che è in grado di oltrepassare l'intima arteriosa umana e, negli studi compiuti su animali, è stata riportata la capacità di Lp(a) di promuovere trombosi, infiammazione e formazione di cellule schiumose, effetti questi che interessano i momenti salienti dell'aterosclerosi: genesi, progressione ed evento clinico finale.
Nella maggior parte dei numerosi studi epidemiologici degli ultimi anni, l'associazione tra concentrazione ematica di Lp(a) e rischio cardiovascolare è confermata, ma l'associazione rimane modesta e l'aggiunta della Lp(a) ai tradizionali marcatori lipidici e non lipidici del rischio cardiovascolare ha un impatto solo marginale sulla classificazione dei pazienti nelle classi di rischio (1).
Il livello plasmatico di Lp(a) è estremamente variabile: da valori molto bassi, quasi indosabili (<0,2 mg/dL) a livelli molto elevati (>200 mg/dL), cioè 1.000 volte di più.
La variabilità dipende essenzialmente dalle isoforme dell'apo(a) che si differenziano tra loro per la dimensione della molecola che è determinata dal numero di ripetizioni delle tipiche strutture ad ansa, i kringle, in particolare dal numero di kringle 4 tipo 2 (2).
Più la molecola di apo(a) è piccola, più la concentrazione plasmatica di Lp(a) è elevata, probabilmente perché è più efficientemente secreta dagli epatociti di quanto non lo siano le isoforme di dimensioni maggiori.
Il polimorfismo del gene che codifica per le dimensioni dell'apo(a) è dunque il maggior predittore della concentrazione plasmatica di Lp(a) e rende conto del 40-70% della variazione dei livelli plasmatici della lipoproteina, cui contribuiscono comunque anche altre varianti genetiche (3).
Il forte ruolo della genetica nel determinare il livello della Lp(a) è responsabile della sua particolare distribuzione nella popolazione che, a differenza di quanto si osserva in generale per altri analiti, tra cui il colesterolo, non è normale, ma è fortemente asimmetrica e questo può essere causa delle difficoltà nell'accertare il peso di Lp(a) nella stima del rischio di aterosclerosi.
Recentemente sono state trovate due varianti genetiche caratterizzate da livelli particolarmente alti di Lp(a) di piccole dimensioni ed ambedue le varianti erano associate ad un elevato rischio cardiovascolare (4).
La prevalenza di queste varianti genetiche non è nota e dipende in gran parte dall'etnia della popolazione studiata.
Nello studio PROCARDIS (Precocious Coronary Artery Disease), condotto su oltre 6.000 soggetti, di cui circa la metà con malattia coronarica, reclutati in Gran Bretagna, Italia, Svezia e Germania, una persona su sei è risultata portatrice di una di queste due varianti e aveva di conseguenza livelli più elevati di Lp(a) e un rischio di infarto doppio rispetto ai soggetti con genotipo diverso.
I soggetti portatori di entrambe le varianti avevano un rischio elevato di più di quattro volte (4).
La Lp(a) si conferma quindi come un fattore di rischio cardiovascolare indipendente da quelli tradizionali quali colesterolo totale, colesterolo LDL, apoproteina B, ipertensione, diabete, obesità e fumo, ma il suo peso prognostico è rilevante solo quando i suoi livelli sono elevati.
Mancherebbe, cioè, una relazione continua tra livello di Lp(a) e rischio e questo, insieme a problemi di standardizzazione della metodica di misura, potrebbe spiegare i risultati spesso contrastanti degli studi epidemiologici.
La stima del rischio è basata sullo studio di popolazioni che per la maggior parte hanno bassi valori di Lp(a) e questo comporta che il peso della Lp(a) nella stima sia così diluito da diventare poco significativo.
La Kamstrup ed i suoi collaboratori hanno riclassificato nelle classi di rischio i pazienti che avevano un livello di Lp(a) maggiore di 47 mg/dL, corrispondente ad un valore superiore all'80esimo percentile della distribuzione nel loro campione di 8.720 pazienti ed hanno osservato che nel 23% di essi il rischio di infarto veniva riclassificato più correttamente ad un livello superiore se si aggiungeva al pannello dei fattori di rischio anche la Lp(a). Nessun miglioramento nella stima del rischio si è invece osservato nell'intera popolazione, a conferma del fatto che solo nei soggetti con valori elevati di Lp(a), la sua misura ha un impatto significativo sulla stima del rischio.
Da questo studio e da altri risulterebbe quindi inutile la misura della Lp(a) nella popolazione generale per una più precisa valutazione del rischio cardiovascolare, come del resto era già stato sottolineato da più parti e anche nelle recenti linee guida congiunte delle Società europee di cardiologia e dell'arteriosclerosi (5) che suggeriscono la determinazione della Lp(a) solo nei soggetti con un alto rischio cardiovascolare o con una forte familiarità per malattie aterosclerotiche precoci.
Rimane però il problema di cosa fare se il rischio cardiovascolare è elevato a causa dell'alta concentrazione di Lp(a).
Solo l'acido nicotinico aveva dimostrato una buona azione di riduzione di questa lipoproteina, ma il farmaco non è più disponibile. Non rimane altro che intervenire con più energia sugli altri fattori di rischio modificabili.

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